Digitale, verde, responsabile: un nuovo capitalismo può salvare la democrazia

E se fosse il capitalismo a salvare la democrazia? Un capitalismo che muta ancora una volta, come è nella sua natura proteiforme. In fondo è stata la grande crisi scoppiata nel 2008 a innescare una reazione a catena che dall’economia s’è diffusa alla politica, scardinando i ceti sociali sui quali il sistema liberaldemocratico si è retto, a cominciare dalla classe media. Ci sono voluti alcuni anni finché nel 2016 i successi della Brexit nel Regno Unito e di Donald Trump negli Stati Uniti d’America hanno fatto da spartiacque. Ma da allora ha preso forza ovunque l’onda nazionalpopulista.

Gonfiata dalla recessione e da fattori culturali altrettanto importanti come la perdita d’identità (oggi questione centrale secondo Francis Fukuyama), l’onda è figlia della “confusa rivolta contro il calculemus” (la razionalità economica se non la razionalità tout court) già individuata anzitempo dal filosofo Isaiah Berlin. È sott’accusa il paradigma che ha vinto la guerra fredda e dominato dal 1989 al 2016, triplicando il prodotto lordo mondiale e facendo uscire un miliardo di donne e uomini dalla povertà assoluta. Quel modello (libero mercato più liberal democrazia) sarà giudicato efficace dagli storici, ma qui e ora, nei paesi occidentali in particolare, ha perduto buona parte della propria legittimità.

Non ci si riconoscono più né i produttori né i consumatori, né i risparmiatori né gli investitori. Sia le imprese sia il capitale finanziario cercano nuove strade, mentre la politica rispolvera l’intervento della mano pubblica per correggere gli errori della “mano invisibile”. Lo Stato e il mercato si rincorrono e si sfidano da sempre in un continuo moto pendolare, ora il pendolo sembra aver perduto il proprio centro.

 

IL CAPITALISMO DIGITALE, VERDE, RESPONSABILE. Il dibattito sui limiti, i mali, le prospettive dei capitalismo si è svolto finora sul piano prettamente teorico con una tendenza all’autodafé da parte dei pensatori e degli economisti che più avevano contribuito alla nuova “età dell’oro” e ora si cospargono il capo di cenere. Joseph Stiglitz è passato dall’economia alla escatologia e scrive sulla “morte del neoliberismo e il ritorno della storia”. Larry Summers, tra nostalgia e profezia, da anni ha aperto una discussione sulla “stagnazione secolare” (rispolverata dagli anni Trenta) che assomiglia ai dibattiti teologici della tarda scolastica. Dani Rodrick spera in una “globalizzazione intelligente”. Martin Wolf condanna il “capitalismo truccato che danneggia la democrazia”. Speculazione finanziaria e diseguaglianza sono le due tare più gettonate. I social media, un tempo paradiso della libertà individuale, vengono adesso bollati come l’inferno dei diritti. Ci si domanda perché una politica monetaria che ha portato a zero il costo del denaro non sia riuscita a rialzare l’inflazione, e si sogna un new normal, un impossibile ritorno ai bei vecchi tempi. Manca in tutto questo non solo il passaggio dalla teoria alla prassi, ma, ancor prima, una teoria che si sappia calare dentro i processi reali. A essi guardano piuttosto i tecnologi o i tecnocrati. Klaus Schwab il fondatore del World Economic Forum di Davos, ha tracciato nel suo The Fourth Industrial Revolution le linee attraverso le quali passa l’ultima (in ordine di tempo) grande trasformazione.

Un paradigma compiuto non esiste, Proteo è ancora in piena muta. il capitalismo non è crollato come si aspettavano i no global di destra e di sinistra, né sono emerse alternative, il modello cinese (mercato più dispotismo orientale) si regge grazie al libero scambio; non ci sono nemmeno sentieri luminosi che conducano al paese del latte e del miele, ci stiamo inoltrando in terra incognita, ma alcune tracce si possono già chiaramente vedere. Le imprese e la finanza si muovono con un passo e una rapidità inaspettata. Come? Intanto il capitale diventa dvr: digitale, verde, responsabile. E chi non rientra in questo triangolo è tagliato fuori da tutto.

 

IL RITORNO DELLA RESPONSABILITÀ SOCIALE. Nel 1970 Milton Friedman scrisse un articolo intitolato in modo tranchant: “La responsabilità sociale delle imprese è aumentare i propri profitti.” Divenne uno dei mantra della rivoluzione neoliberale. I fautori della responsabilità sociale arrotolarono le loro bandiere e rincasarono con la coda tra le gambe. Friedman aveva ragione, ma davvero c’è un solo modo per aumentare i propri profitti? È questa la domanda che emerge oggi sempre più forte. I fattori interni della produzione (tecnologia, finanza, governance) e quelli esterni (mercati, vincoli sociali e istituzionali, policies) tutto si trasforma in un amalgama indecifrabile a priori, mettendo più che mai alla prova l’imprenditore e la struttura interna dei grandi gruppi multinazionali.

La Business Roundtable, l’influente lobby americana, nell’agosto scorso ha emendato la propria dichiarazione vecchia di due decenni secondo la quale “le imprese esistono per servire i loro azionisti” e ha sostituito shareholders con stakeholders, (clienti, dipendenti, fornitori, comunità e – ultimi ma non per importanza – azionisti). Ma c’è chi non ha atteso le bolle papali per strutturare il proprio business in modo che oggi viene chiamato “responsabile”.

Prendiamo il re dei blue jeans, Levi Strauss. Ha una storia di “responsabilità” economica e sociale che risale al suo fondatore, l’immigrato ebreo tedesco che fece una fortuna con l’oro della California a metà del xix secolo e spese parte della sua ricchezza in beneficienza. Dopo il terremoto di San Francisco che nel 1906 distrusse la fabbrica, suscitò scandalo nel mondo degli affari la decisione di continuare a pagare i dipendenti. Rispetto dei contratti e dei diritti, buoni salari, condizioni di lavoro al meglio, la scelta di produrre i blue jeans con marchio Levi’s rigorosamente negli Stati Uniti (in Asia vengono lavorati i prodotti con altre etichette per non “macchiare” la All American come recita la pubblicità del brand principale), grandi investimenti in tecnologie (oggi viene impiegato il laser per trattare la stoffa), attenzione all’ambiente, un codice di condotta molto rigoroso per i fornitori, e via di questo passo. Il gruppo è tornato a Wall Street dopo trent’anni, ma è rimasto sotto il controllo della famiglia Haas che discende dal fondatore, anche dopo la quotazione in borsa nel marzo scorso. Il top manager Chip Bergh spiega, quasi rispondendo all’assioma di Friedman, che “fare profitti seguendo i principi non vuol dire non fare profitti. Più ne facciamo più ne reinvestiamo e non solo in azienda, perché vogliamo fare la differenza sul piano dei benefici sociali ed economici”.

La conferenza annuale che Prada ha tenuto a New York, aperta venerdì 9 novembre, è stata dedicata quest’anno alla sostenibilità, sotto il titolo “Shaping the future”. Per Carlo Mazzi presidente della maison di moda non è solo un’operazione di marketing: “La sostenibilità è divenuta essenziale per la crescita.” Il gruppo italiano da anni sta investendo in nuovi progetti tra i quali Prada Re-nylon utilizzando il nylon riciclato realizzato con rifiuti di plastica pescati negli oceani. Insieme alla New York University ha realizzato una ricerca ad ampio spettro sull’economia sostenibile.

Gli esempi di questa trasformazione sono moltissimi. Non possiamo qui fare un lungo e meticoloso elenco, ne citiamo solo alcuni. Roberto Marques presidente del gruppo brasiliano Natura & Co. che possiede The Body Shop e Aesop ha indicato tre linee di fondo per i risultati sociali, ambientali e finanziari dell’impresa: la gente, il pianeta e il profitto (in inglese sono tre p: people, planet, profit). Preservare la foresta amazzonica è, ovviamente, una delle priorità. Il colosso giapponese Hitachi ha deciso di rivedere la sua intera governance, altri stanno riplasmando tutto il core business.

I cambiamenti più eclatanti vengono dal mondo degli idrocarburi. La BP non si chiama più British Petroleum, ma Beyond Petroleum, una decisione presa sotto l’effetto choc dell’incidente del 2010 sulla piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico. La famiglia Rockefeller, ancor oggi maggior singola azionista della Exxon Mobil, nel 2014 ha deciso di non investire più nel petrolio. La Royal Dutch Shell cerca un futuro oltre l’oil & gas. Lo stesso sta facendo la italiana Eni. L’Enel – il gruppo elettrico italiano che controlla anche la spagnola Endesa – sta realizzando da anni una vera e propria riconversione verso l’utilizzo di energie rinnovabili. Il motore a scoppio volge al tramonto e l’auto elettrica è la grande scommessa delle aziende, dalla Toyota alla Volkswagen, che contagia persino l’industria aeronautica. Grazia Vittadini, capo progetto dell’Airbus non ha dubbi: il futuro degli aerei è elettrico. I pannelli solari sono ormai una realtà sulle grandi navi da crociera e anche sui cargo. I cantieri cinesi come quelli italiani si stanno attrezzando.

 

UNA NUOVA GRANDE TRASFORMAZIONE? Digitale, verde, responsabile: questa triade avrà la forza di guidare un nuovo ciclo di sviluppo, come avvenne per i computer, internet e i telefonini, la triade digitale? Non è affatto chiaro; si capisce che non sarà una transizione lineare né destinata a facili successi. Gli interessi dei consumatori e dei produttori, per esempio, entrano in conflitto: shareholders e stakeholders non sono sempre sulla stessa lunghezza d’onda, come mostra l’esperienza della Danone. Tre anni fa l’amministratore delegato Emmanuel Faber decise di non usare su almeno la metà dei suoi prodotti ingredienti geneticamente modificati, suscitando una serie di reazioni negative: i tecnici aziendali per i quali sarebbe impossibile, i fornitori, i produttori, gli operai timorosi di perdere molti posti di lavoro, tutti hanno alzato barriere protettive. In realtà, gli azionisti si sono mostrati più aperti all’innovazione che è andata avanti comunque. Sugli stakeholders pesa il reticolo di interessi consolidati. Non serve citare Joseph A. Schumpeter per concludere che il vero visionario è l’imprenditore.

C’è una componente culturale se non ideologica? Certo che c’è e c’era anche negli anni Trenta, come ha mostrato Karl Polanyi. È una moda, una riconversione di facciata? È una farsa come accusano gli ecologisti? È il soggiacere allo spirito del tempo? Potrebbe essere tutto questo se non ci fosse la pressione dal lato della domanda: si pensi alle smart cities e alle sfide che pongono sia all’industria sia all’organizzazione dei servizi, oppure al grande business dei rifiuti. E se non venisse una forte spinta dal capitale. Larry Fink, capo di BlackRock, che muove più denaro di un intero Stato (un patrimonio gestito di oltre 6.000 miliardi di dollari – il pil di Gran Bretagna, Francia e Italia messi insieme) nella sua lettera annuale intitolata “A sense of purpose”, ha chiesto ai top manager dell’America Inc. di mostrare in che modo offrono un contributo positivo alla società. Non molti gli hanno dato retta, anche se si cominciano a vedere esempi di bonus e incentivi legati non solo al risultato economico di fine anno, ma al raggiungimento di mete più ampie come la riduzione delle emissioni di anidride carbonica.

La governance procede lentamente, la finanza è molto più veloce. Una marea monetaria si riversa verso i fondi etici e non solo; parte del flusso che fino a dieci anni fa aveva alimentato i paesi in via di sviluppo oggi si sposta verso questa nuova frontiera. Sembra quasi che per ottenere denaro a volontà (e oggi nel mondo ne circola una quantità immensa) sia indispensabile giurare che verrà utilizzato per investimenti sostenibili e responsabili. Può diventare una bolla, ma la storia del capitalismo è una storia di bolle, come ha mostrato Charles Kindleberger, quanto meno da quella dei tulipani olandesi nel xvii secolo.

Quali politiche possono accompagnare la grande trasformazione? Sempre più si discute di un Green New Deal su larga scala, con i governi che fanno da pianificatori e i contribuenti che pagano per gli incentivi. È realistico, può funzionare? I liberisti rabbrividiscono, anche se non si tratta certo di un Gosplan partorito da un governo mondiale, bensì di direttive generali; se ancorate a processi reali che scaturiscono dal mondo della produzione e dal mercato, non sarebbero né irrealistiche né pianificatorie.

 

RIFORMARE O MORIRE. Elizabeth Warren – la senatrice del Massachusetts in corsa per la nomination democratica – sfida Donald Trump con un’agenda contro Big Finance, Big Pharma, Big Tech e Billionaires, le quattro B del populismo di sinistra. Ha colpito soprattutto la proposta di una tassa sulla ricchezza (il 20% su chi possiede oltre 50 milioni di dollari), anche se oggi c’è maggior consenso persino tra i repubblicani. Meno popolare l’assistenza sanitaria per tutti stile europeo. Davvero immaginifica è la sua riforma del capitalismo che passa attraverso l’imposizione di rigidi criteri nei confronti delle imprese, in particolare verso quelle che vogliono entrare negli Stati Uniti: diritti umani, sostegno della libertà religiosa, rispetto delle norme contro il traffico di esseri umani, eliminazione dei sussidi contro i combustibili fossili, regole ferree contro le emissioni di co2, nessun intervento “sospetto” sul mercato dei cambi, obbligo alle società per azioni di eleggere il 40% dei consiglieri tra il personale e così via. Una sorta di neoprotezionismo radicale con l’intento di usare la potenza di fuoco americana per cambiare il modus operandi del capitalismo in tutto il globo terracqueo. Per alcuni rischia di essere più pericoloso del protezionismo trumpiano che in fondo è di vecchio stampo con un po’ di dazi e tariffe. Altri, al di là delle singole proposte irrealistiche, pensano che la senatrice Warren sia in sintonia non solo con lo Zeitgeist, ma anche con il percorso che le imprese e i mercati stanno imboccando.

E le conseguenze politiche di questo processo? Quale sarà l’impatto sulla struttura della società e sulla democrazia? È davvero presto per capirlo, ma non per porsi le domande. La globalizzazione esprime un bisogno profondo e un diritto naturale, tornare indietro significa un regresso dell’umanità. “L’etica internazionalista è un prodotto del capitalismo”, scriveva ancora Schumpeter, ed estendeva la sua convinzione anche al pacifismo (forse in modo troppo ottimista).

La democrazia liberale, figlia del capitalismo, assumerà nuove forme. Sarà anche lei dvr? Sarà sicuramente digitale, e questo lo stiamo già sperimentando, conseguenze negative comprese. Sarà verde? Certo, la questione ambientale è già prioritaria all’interno dei singoli paesi e su scala internazionale, basta pensare a Trump e al suo rifiuto del trattato di Parigi sul clima. Sarà responsabile? Dovrà esserlo in molti modi, come capacità di rappresentare ceti sociali, bisogni e interessi che nascono dal basso, ma anche (e forse ancor più) come capacità di governare i processi in modo efficace. Altrimenti (e anche questo è sotto i nostri occhi), crescerà nei cittadini la voglia di soluzioni semplificate, di uomini soli al comando, di dittatori. Rappresentatività e governabilità oggi sono entrambe deboli; entrano in conflitto. Riformare Proteo può essere una generosa illusione, ma il rischio è che senza riforme, Proteo si trasformi in Uroboro, il serpente che mangia se stesso.

 

 

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