A Gaza, Israele ha bombardato fin quasi a cancellare ogni edificio, ogni traccia di qualcosa di solido. Ripete che non si fermerà fino a quando non cancellerà Hamas. Ma tra le rovine della Striscia, cosa resta davvero di Hamas?
Militarmente, Hamas non ha più le unità strutturate di un tempo. Non ha che uomini armati, ormai. A stento addestrati, e male equipaggiati. Di tanto in tanto, sbucano fuori dai tunnel e attaccano un carro armato, una jeep di pattuglia. Ma niente di più. I suoi comandanti sono stati tutti eliminati dall’IDF, uno a uno, e ora, non ha che sostituti dei sostituti dei sostituti. A capo della Brigate al-Qassam c’è Izz al-Din al-Haddad, che è arrivato ai vertici solo nel 2021, come comandante di Gaza City. Non ha l’esperienza di Mohammed Deif. Ucciso nel 2024, a luglio, dopo che a marzo, era già stato ucciso Marwan Issa, suo storico numero due. Mohammed Deif, una delle menti del 7 Ottobre, era a capo delle Brigate al-Qassam dal 2002. Dalla Seconda Intifada. E in più, Izz al-Din al Haddad si trova ad affrontare il momento più complesso di sempre senza guida politica. Senza direttive.
Né da Gaza né da Doha. Dopo l’assassinio di Ismail Haniyeh, e di Yahya Sinwar, suo successore, Hamas si è data una dirigenza collegiale con cinque membri – con Khalil al-Hayya, che è di Gaza, a condurre le trattative con Israele. Ma non c’è linea. Non c’è strategia. I capi di Hamas si contraddicono l’un l’altro. E spesso anche da soli. Basti un esempio. A marzo 2024 Mousa Abu Marzouk, uno dei fondatori di Hamas, e suo legale rappresentante, ha presentato al ministero degli Interni di Londra formale richiesta perché Hamas venisse depennata dalla lista britannica delle organizzazioni terroristiche. Tra le motivazioni, ha scritto che se un giorno i palestinesi optassero per i “due Stati” lungo il confine del 1967, e cioè per il riconoscimento di Israele, Hamas non si opporrebbe alla volontà della maggioranza.
Il mattino dopo, questo passaggio era in tutti i media. E da Doha, le altre figure più di rilievo hanno subito smentito: Assolutamente no, hanno detto. Non è vero. Non sono dettagli, ma questioni di fondo: i due Stati. Il riconoscimento di Israele. Hamas non ha una linea chiara neppure su questo. Perché ormai, è agli sgoccioli.
Si dice: Hamas non sparirà, perché Hamas non è le Brigate al-Qassam, non è Yahya Sinwar, è un’idea. Ma se per idea si intende la resistenza, la resistenza esiste indipendentemente da Hamas. Esiste perché esiste l’Occupazione. Non perché esiste Hamas.
Vale anche per la resistenza armata. Fatah ha le Brigate al-Aqsa, l’Islamic Jihad ha le Brigate al-Quds. Il Fronte Popolare, il PFLP, ha le Brigate Abu Ali Mustafa. Tutti hanno un’ala armata. Tutti combattono. Non è prerogativa di Hamas.
L’idea di Hamas è un’altra. Hamas deriva dai Fratelli Musulmani, organizzazione internazionale che ha l’idea di dare un contenuto politico all’Islam. Si costituisce nel 1988, agli inizi della Prima Intifada, ma a Gaza opera dal 1973: come uno dei tanti movimenti islamisti che dopo il 1967, dopo la sconfitta nella guerra dei Sei Giorni, che era stata la guerra del presidente egiziano Nasser, laico e socialista, sostengono che la crisi del mondo arabo sia effetto della devianza dall’Islam.
E infatti, Hamas non comincia dalle Brigate al-Qassam: comincia dalle organizzazioni di carità. Dall’assistenza sociale. Per influenzare la società. Perché pensa che solo una società religiosa saprà battere Israele. Oggi è largamente dimenticato: ma nel 2007, quando conquista il potere a Gaza dopo gli scontri con Fatah, Hamas non è affatto quella che adesso si appella al Papa, ma quella che brucia le chiese. E le librerie, e le radio. Quella che instaura la Sharia. E istituisce la Polizia del Vizio e della Virtù.
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Sono gli anni del sequestro del giornalista della BBC Alan Johnston. E dell’omicidio di Vittorio Arrigoni. Sono gli anni a ridosso dell’Undici Settembre. Ma da allora, i movimenti islamisti sono tutti molto cambiati – anche in reazione all’estremizzazione di al-Qaeda, e poi, più ancora, dell’ISIS. Ora, sono movimenti sostanzialmente nazionalisti, concentrati ognuno sul proprio Paese, sui palestinesi, sui siriani, sugli afghani, invece che su tutti i musulmani: e il richiamo all’Islam è più retorica che altro. Dalla Sharia Law, sono passati alla Sharia Politics[1], una formula che risale al salafita Ibn Taymiyya: l’accettazione, cioè, che non si è gli unici attori, né gli attori egemoni, ma attori insieme ad altri in un contesto plurale, che impone alleanze e compromessi.
A livello sia nazionale sia internazionale. Chiusa la Seconda Intifada, Hamas ha partecipato alle elezioni, ha tentato di entrare nell’OLP (il cui attuale presidente, Mahmoud Abbas, presiede anche l’Autorià Nazionale Palestinese che è nominalmente al governo in Cisgiordania): e soprattutto, si è caratterizzata sempre più per la sua opposizione a Israele. Come altri per l’opposizione a Assad, o agli Stati Uniti[2]. Era questa la sua forza. Sfidare Israele. Soprattutto rispetto alla Fatah (fazione dell’OLP) di Mahmoud Abbas, accusata di essere invece a libro paga di Israele.
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Hamas non aveva più un suo modello sociale. Anche qui: come gli altri movimenti islamisti, il suo modello ormai era il Golfo, e cioè, un’economia di rendita da gas e petrolio che distribuisce ricchezza, invece che crearla: e con profonde disuguaglianze – non esattamente l’Islam degli oppressi di Khomeini, che leggeva Frantz Fanon. Negli ultimi anni, Hamas era solo questo: non era Fatah. Non aveva più una sua identità.
In Palestina non si vota dal 2006. Ma da tempo, nei sondaggi Hamas prevale in Cisgiordania, e Fatah a Gaza: e cioè, nei due territori, chi ci vive vorrebbe essere governato dall’alternativa. La protesta e lo scontento prevalgono. Quando nel 2021 sono state infine fissate nuove elezioni, poi annullate all’ultimo minuto da Mahmoud Abbas, i sondaggi sono stati inequivocabili: ovunque, erano in testa i candidati indipendenti. Quelli né di Fatah né di Hamas. Seppellite anch’esse tra le rovine di Gaza.
Note:
[1] Jerome Drevon, From Jihad to Politics: How Syrian Jihadis Embraced Politics, Oxford University Press 2024
[2] Vali Nasr, Iran’s Grand Strategy, Princeton University Press 2025.