Un nuovo quadro politico interno per il Regno Unito

Il risultato elettorale sconvolge la politica britannica. Non solo David Cameron sarà nuovamente Premier senza bisogno di una coalizione di governo; non solo diverse formazioni registrano una crescita eccezionale mentre altre un fragoroso arretramento; non solo intere regioni del Paese cambiano del tutto colore politico: tutto ciò è successo senza che sondaggisti e opinionisti l’avessero previsto. Com’è possibile?

Sia nelle percentuali che nell’assegnazione di seggi, i sondaggi delle ultime settimane hanno continuato a dare alla pari il partito Conservatore del Premier uscente David Cameron e il partito Laburista guidato da Ed Miliband. La realtà smentisce questo scenario: sono 330 i seggi conservatori, quasi cento in più di quelli laburisti del dimissionario Ed Miliband; è confermato il crollo del partito Liberaldemocratico del Vice-Premier David Clegg, che scende da 56 a 8 parlamentari.

Risulta corretta solo la previsione della forte asimmetria fra la percentuale di voti dell’UKIP e il singolo seggio assegnato a questo partito, mentre allo SNP andrebbero ben 56 seggi, quasi tutti quelli disponibili a Nord del Vallo di Adriano. Per il resto, è lecito fare l’ipotesi che i sondaggisti abbiano attribuito in modo equilibrato fra Conservatori e Laburisti i “voti in uscita” dei Liberaldemocratici, mentre questi voti sono andati in larga parte ai Tory.

A parte l’ennesima sottolineatura della fallibilità delle tecniche previsionali, si possono fare alcune prime considerazioni su questi risultati. Intanto, le preoccupazioni espresse dagli ambienti finanziari della City negli ultimi giorni di campagna elettorale non sono cadute nel vuoto: in particolare aveva fatto notizia l’endorsement dell’Editor-in-Chief dell’Economist, Zanny Minton Beddoes, a favore di una nuova coalizione Conservatori-Liberaldemocratici. Non si trattava di una pregiudiziale nei confronti dei Laburisti: a suo tempo l’Economist sostenne Tony Blair contro i Conservatori post-thatcheriani. La motivazione addotta era pragmatica: il direttore diceva di temere la concretizzazione del manifesto laburista per la fede eccessiva nel pubblico a discapito del privato: uno “statalismo mascherato da progressismo”.

L’analisi era fondata sul piano economico, in particolare perché l’eventuale alleanza con lo SNP avrebbe rafforzato l’anima “vetero-socialista” che è presente nei ranghi di entrambi i partiti. È però confermato il tallone d’Achille di questo ragionamento: credere oggi nel potenziale politico dei Liberaldemocratici non è realistico. Questo partito ha perso moltissimi dei marginal seats – i seggi vinti con meno del 10% di scarto, e quindi “contendibili” – tornando a essere un partito marginale.

Vi è poi la prevista affermazione dello Scottish National Party (SNP) di Nicola Sturgeon (classe 1970), che ha preso il posto di Alex Salmond, sia come leader dello SNP che come Premier del governo scozzese, dopo l’esito sfavorevole ai nazionalisti del referendum per l’indipendenza della Scozia votato nel settembre dello scorso anno. Questo risultato è la misura del fallimento di Ed Miliband: storicamente la Scozia è sempre stata una riserva di voti del Labour, al punto che – per fare un esempio – nelle storiche elezioni del 1997 vinte trionfalmente da Tony Blair le constituencies scozzesi andarono tutte ai Laburisti, a parte 5 seggi vinti dallo SNP (peraltro allora i collegi scozzesi erano ancora 73: sono stati ridotti a 59 dopo l’implementazione della devolution).

Questo era il senso politico della devolution dal punto di vista laburista: fare delle concessioni per indebolire elettoralmente i nazionalisti. Avevano ragione invece coloro che sostenevano che la creazione di un parlamento ad Edimburgo, nel medio periodo, avrebbe alimentato le spinte centrifughe a favore di una piena indipendenza della Scozia: è la tesi da sempre sostenuta dai Conservatori che rimproveravano a Blair un difetto di responsabilità, avendo messo in agenda una riforma costituzionale che nell’immediato aveva effetti benefici per il Labour, ma che apriva forti incertezze in ordine al futuro. Nel momento in cui il Labour ha avuto un leader con scarso crossover appeal, vale a dire senza la capacità di attrarre i voti non laburisti, la contraddizione di fondo della devolution è venuta al pettine anche dal punto di vista laburista.

Vi è infine il problema del sistema elettorale. Sebbene sia stata confermata la diffidenza che gli spiriti liberali possono (e devono) avere per le posizioni di Nigel Farage, ci si deve chiedere comunque se è giusto che il suo partito prenda un solo deputato a Westminster, nel momento in cui i suffragi dell’UKIP raggiungono il 12% dei votanti. Di più: i voti dello SNP, se computati a livello nazionale, sono pari al 3%, ma sono sufficienti per garantire 58 MP. Il Regno Unito può continuare a votare con il metodo uninominale maggioritario a turno unico (first-past-the-post) con l’attuale frammentazione?

Il punto è complesso sia dal punto di vista tecnico che politico. Il first-past-the-post (FTPT) funziona bene quando i partiti rilevanti sono sostanzialmente due, e vi è una geografia elettorale differenziata, perché le sconfitte di un partito in alcune constituencies si compensano, in termini di rappresentanza parlamentare, con le vittorie in altri collegi. Già nel momento in cui i partiti rilevanti diventano tre cominciano i problemi, perché di fatto questo sistema ostacola fortemente la crescita politica di “terzi” antagonisti. Lo si è visto con la vicenda del partito Liberaldemocratico: una flessione dopo l’ottimo risultato del 2010 lo riconsegna all’irrilevanza, mentre la rappresentanza proporzionale gli avrebbe dato un peso ben diverso (l’8% dei suoi voti tradotto proporzionalmente in seggi darebbe oltre 50 deputati).

Nondimeno è molto difficile pensare a dei correttivi e/o a delle alternative: si deve ricordare a questo proposito che nel programma della coalizione Conservatori-Liberaldemocratici che ha governato nella legislatura appena conclusa vi era lo svolgimento di un referendum elettorale, fortemente voluto dal Vice-Premier Nick Clegg. Il referendum si è svolto il 5 maggio 2011 in coincidenza con una tornata elettorale amministrativa: ai cittadini britannici veniva chiesto di sostituire il fptp con l’alternative vote.

Quest’ultimo, in uso a livello parlamentare in Australia, è sempre un sistema uninominale maggioritario a turno unico: tuttavia i cittadini, anziché votare soltanto un candidato, sono chiamati a esprimere una classifica di preferenza fra i candidati del collegio (prima scelta, seconda scelta, ecc.). Risultano eletti coloro che prendono la maggioranza assoluta delle prime scelte, oppure il miglior risultato delle prime e seconde scelte, con l’effetto di dare più rappresentanza ai partiti minori, senza tuttavia utilizzare il metodo proporzionale. Nel referendum citato questa ipotesi è stata nettamente respinta dagli elettori britannici (68% no, 42% sì); con ogni probabilità, tuttavia, nei prossimi mesi si tornerà a parlare di questi argomenti.

Il risultato di queste elezioni consente a David Cameron di restare al numero 10 di Downing Street, sebbene il suo partito goda di una maggioranza limitata di seggi. La Camera dei Comuni ne ha 650, quindi la maggioranza teorica si pone a 326 seggi; tuttavia il quorum dovrebbe abbassarsi leggermente perché i deputati nordirlandesi del Sinn Féin in genere non prendono possesso dei loro scranni.

Cameron ha già annunciato la formazione di un governo monocolore. Ma in caso di futura necessità potrà contare sul sostegno dei Liberaldemocratici e degli unionisti del DUP, che complessivamente totalizzano 16 seggi. Sempre pochi però per governare con tranquillità. Infatti, dopo che per molto tempo l’attenzione è stata assorbita dall’economia, nell’agenda del prossimo governo vi saranno da affrontare diverse tematiche istituzionali – rapporto con la Scozia, legge elettorale – che richiedono un confronto anche al di fuori della maggioranza.

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