L’ombra di George W. Bush si allunga su Barack Obama. Il presidente degli Stati Uniti si trova a gestire una situazione congiunturale incredibilmente complessa, paragonabile – per estensione della sfida e delle incertezze a essa sottesa – all’11 settembre 2001. Accanto alla missione di sconfiggere la crisi, vero test su cui si giocherà il futuro politico dell’inquilino della Casa Bianca, restano però aperte le grandi partite che hanno caratterizzato lo scenario nazionale e internazionale negli ultimi anni. Su molti tavoli, appunto, Obama sembra seguire il solco tracciato dal suo predecessore: se le prime indicazioni che giungono dalla sua scelta saranno confermate, la conseguenza sarà duplice. Da un lato, il “change” promesso in campagna elettorale si rivelerà, almeno in certa misura, un mero (e comprensibilissimo) artificio retorico; dall’altro, sarà necessario rivalutare l’operato di Bush, considerato da molti come il peggior presidente americano di sempre.
Come sostiene Roberto Menotti su Aspenia online, (Obama e le strane eredità di G.W. Bush), una linea di continuità parrebbe delinearsi sul fronte della politica estera e delle mosse di Washington, Medio Oriente incluso. Anche sulla guerra al terrorismo (come ha scritto recentemente Christian Rocca su Il Foglio) le somiglianze sono impressionanti. Un fenomeno simile si sta verificando in un altro settore: quello delle politiche ambientali e climatiche. Di per sé la cosa è sorprendente, perché questo è uno dei momenti di rottura più enfatizzati prima del 4 novembre, e maggiormente attesi dalla comunità internazionale a cominciare dall’Unione europea. Eppure, Obama è soggetto a un numero di constraint che gli renderanno difficile perseguire innovazioni radicali. Non è detto, del resto, che anche potendo lo farebbe, almeno a giudicare da talune scelte.
Anzitutto, Copenhagen: alla fine di quest’anno si svolgerà nella capitale danese l’usuale vertice sul clima patrocinato dalle Nazioni Unite, dal quale ci si aspetta – dopo una lunga serie di rinvii dovuti anche, ma non solo, all’opposizione della Casa Bianca – la definizione del trattato che dovrà rimpiazzare il protocollo di Kyoto, la cui scadenza è prevista per il 2012. Ambientalisti ed europei ritengono che sarà possibile uscire dal meeting con un framework globale di riduzione delle emissioni, rispetto al quale è critica la partecipazione attiva degli Usa, oltre a quella (pure non scontata) dei BRIC (cioè le maggiori economie emergenti: Brasile, Russia, India, Cina). Tuttavia, il Kyoto 2 rischia di infrangersi sugli stessi scogli che hanno determinato l’affossamento del suo antecedente: vale a dire il Senato americano, se e quando sarà chiamato a ratificarlo. Non solo i repubblicani hanno numeri sufficienti a impedirne la ratifica, ma anche tra gli stessi democratici si sta delineando una fronda, soprattutto tra i senatori eletti negli “Stati del carbone” (secondo tra i quali è l’Illinois, da cui proviene Obama). Se mai si arriverà alla conta, sarà interessante vedere se essi espliciteranno il loro veto o se soffriranno di un’improvvisa epidemia di mal di pancia diplomatici. A questo punto, Obama potrebbe naturalmente andare a Copenhagen e recitare la parte del virtuoso, come del resto fece a Kyoto Al Gore, allora vicepresidente: difficile, però, dire quanto sia vezzo e quanto gioco delle parti, posto che, qualunque cosa ne esca, troverà una fredda accoglienza a Capitol Hill.
Tant’è che il presidente ha immediatamente imboccato un percorso alternativo, chiedendo a Silvio Berlusconi – in quanto presidente del G8 – di organizzare a latere dell’evento di luglio una riunione dei sedici paesi maggiormente responsabili delle emissioni di CO2. A dispetto della calda accoglienza che la proposta ha ricevuto sulla stampa, giova ricordare che il “Major Economies Forum”, come ha maliziosamente ricordato Andy Revkin sul New York Times, nasce da un’idea dell’odiato Bush e risale al settembre 2007. All’epoca, gli europei accusarono la Casa Bianca di tramare per l’affossamento di Kyoto, attraverso la creazione di un forum negoziale alternativo e più flessibile. Si parlò del patto degli inquinatori o dell’anti-Kyoto: sarà interessante vedere come questi epiteti si rovesceranno, a luglio.
L’aria che tira non è migliore per le politiche interne. In campagna elettorale, Obama e i suoi consiglieri hanno promesso l’istituzione di uno schema di “cap and trade” per il controllo delle emissioni, sulla falsariga dell’esperienza europea. Le maggiori nomine del presidente in posizioni di responsabilità sembrano spingere in questa direzione: il suo consigliere sull’ambiente è John Holdren, definito dagli scettici “the alarmist in chief”, mentre alla guida del Council on Environmental Quality della Casa Bianca e della Environmental Protection Agency sono finite, rispettivamente, Carol Browner e Lisa Jackson. Tutti personaggi legati ad Al Gore, più (Browner e Jackson) o meno (Holdren) urbani. A completare il quadro, è l’arrivo di Henry Waxman e Barbara Boxer alle commissioni competenti di Senato e Camera.
Sotto la superficie, tuttavia, la situazione è ben più tesa di quanto appaia. Tutta la cordata clintoniana che fa riferimento a Larry Summers (oggi a capo del National Economic Council e pigmalione del segretario al Tesoro, il potente Tim Geithner) starebbe remando contro, spaventata dai costi che un piano ambizioso potrebbe avere per l’economia americana, specie in un momento di crisi come questo. Il segretario all’Energia, Steven Chu, teoricamente schierato sul fronte ecologista, nella sua prima audizione al Congresso ha teso la mano all’industria del carbone e del nucleare. E poi, anche in questo caso è cruciale il via libera del Senato, che rumoreggia: mercoledì 1 aprile, 26 senatori democratici si sono uniti alla minoranza repubblicana nel pronunciare un no preventivo a qualunque progetto di controllo delle emissioni. Certo, l’esperienza europea, giudicata dai più fallimentare, non aiuta a rendere il piano più attraente. Gli osservatori più attenti pensano che, alla fine, Obama dovrà pur combinare qualcosa, non potendosi permettere una retromarcia proprio su questo tema, ma si tratterà probabilmente più di una iniziativa teorica che di una vera e propria riforma: per esempio, potrebbe essere l’istituzione di un mercato volontario e “unto” da qualche credito d’imposta, o di un (potenzialmente più pericoloso) schema di cap and trade caratterizzato da vincoli molto laschi e un numero sufficientemente alto di esenzioni da non dare troppo fastidio a nessuno, almeno per ora.
Infine, c’è la questione dell’indipendenza energetica, che nella retorica obamiana si declina soprattutto secondo i modi e i tempi delle fonti rinnovabili, mentre nel linguaggio bushista (e poi di John McCain) strizzava l’occhio alla produzione nazionale di greggio e al vasto mondo dell’ “unconventional oil”, assai più inquinante. Chi si aspettava una chiusura su tali fonti, è rimasto deluso: la visita di Obama in Canada, paese ricco di sabbie petrolifere, ha portato pace e bene, in luogo della spada che i suoi sostenitori si aspettavano il presidente brandisse. In effetti, egli si è limitato a dare un buffetto sulla guancia dei produttori canadesi, chiedendo loro di impegnarsi di più per rendere pulito il processo. E sulle rinnovabili? Steven Chu e lo stesso Obama hanno fissato un obiettivo modesto: raddoppiare il contributo delle fonti rinnovabili, dall’attuale 0,8 per cento a circa l’1,6 per cento dei consumi americani pre-crisi. Ironicamente, è lo stesso risultato ottenuto da Bush, che coi suoi tax credit (soprattutto a favore dei biocarburanti e dell’eolico) ha moltiplicato per due l’apporto delle fonti verdi.
Se questo è cambiamento, forse bisogna rivedere la definizione di “change” sul vocabolario.