In Europa risulta piuttosto difficile comprendere come sia possibile immaginare una sconfitta di Barack Obama alle elezioni presidenziali del prossimo novembre.
I due mandati di George W. Bush hanno segnato un profondo deterioramento economico, con la crescita del debito pubblico (la presidenza Clinton si era conclusa con un bilancio federale in attivo), il devastante scatenarsi dell’instabilità del sistema (contro il dogma repubblicano della capacità di autoregolarsi del libero mercato) e l’accentuarsi delle disuguaglianze. Questi sviluppi si sono combinati con la smentita – clamorosa, in base alle statistiche sul crollo della mobilità sociale – dell’altro dogma conservatore: quello della meritocrazia e delle infinite possibilità di successo per chi è capace e dotato di spirito di iniziativa. Gli anni della presidenza repubblicana sono stati inoltre caratterizzati da due guerre molto costose in termini sia di bilancio finanziario che di perdite umane – e sostanzialmente perse: a Baghdad governa un regime repressivo e nella sostanza filo-iraniano, mentre a Kabul risulta evidente che il ritiro delle truppe americane e alleate non potrà certo essere salutato con un “mission accomplished”. I talibani non sono stati affatto sconfitti, mentre il governo di Karzai è, oltre che corrotto, evidentemente incapace di far fronte alla sfida.
Eppure, i sondaggi rivelano che la corsa alla Casa Bianca è del tutto aperta, anche se per la maggior parte concedono a Obama un leggero vantaggio.
Le ragioni sono molteplici. Cominciamo dalla persona del presidente, dal suo stile, dal suo linguaggio. Infinitamente più colto di Romney, con un body language accattivante e cool, Obama presidente si è tuttavia rivelato profondamente diverso dall’Obama candidato – il candidato che suscitava entusiasmi, che lanciava un convincente messaggio di cambiamento capace di raccogliere consensi lungo un vasto arco di opinioni e di appartenenza di classe.
Anche i suoi sostenitori ammettono oggi, allo scadere del suo mandato, che Obama è sostanzialmente “freddo” dal punto di vista umano e della comunicazione (siamo agli opposti dell’autentico calore umano di Bill Clinton) e, quello che è più significativo e sostanziale, profondamente “centrista”. Quest’ultima caratteristica dovrebbe essere in realtà un vantaggio in un sistema politico in cui, in assenza delle grandi ideologie che hanno storicamente caratterizzato i sistemi politici europei, il grosso dell’elettorato è sostanzialmente proprio centrista e moderato. Questo invece non è più vero nell’America di oggi, in cui lo schema tradizionale è stato stravolto dalla radicalizzazione del Partito Repubblicano. Lo si vede soprattutto nel Congresso, dove sono venuti meno gli spazi di compromesso che sempre hanno caratterizzato la vita parlamentare americana e dove spesso si produce un muro-contro-muro con effetti sovente paralizzanti. Oggi il panorama politico americano è caratterizzato dalla contrapposizione fra un progressismo centrista moderato e un conservatorismo radicale con caratteri estremisti.
Nella sua ricerca di convergenze e compromessi Obama si è trovato quindi costantemente spiazzato, incapace di passare all’attacco adottando una polemica che è ormai ritenuta indispensabile per costruire consensi e per rivelare le contraddizioni e le magagne degli avversari. Questo fair play tipico da intellettuale non è certo adeguato a far fronte alle artiglierie pesanti della propaganda di un Tea Party che ormai costituisce il nucleo ideologico egemonico all’interno del Partito Repubblicano, dove i moderati o si sono ritirati o vengono sistematicamente sconfitti già a livello di elezioni primarie. Certo, la campagna presidenziale in corso ha comportato un accendersi dei toni, e anche Obama ha cominciato ad attaccare con durezza il proprio avversario, ma lo ha fatto in un contesto palesemente elettoralistico e appunto per questo in modo meno convincente.
Non si tratta, però, solo di una questione stile, né di un problema dell’indole conciliatrice o di carenza di comunicazione del Presidente Obama. Anzi, può darsi che Obama sia in realtà più profondamente progressista di quanto non appaia, ma che il realismo politico che nessuno gli nega lo porti a tenere conto di un profilo politico-ideologico che caratterizza il paese in senso profondamente conservatore.
Un esempio sembra piuttosto emblematico: il controllo sulle armi. Dopo le stragi di Aurora e del tempio Sikh nel Wisconsin sarebbe stato normale che un presidente progressista, e certamente convinto personalmente della follia di un sistema che permette il libero acquisto di armi da guerra da parte dei cittadini, prendesse posizione in modo non ambiguo a favore del gun control. Così non è stato, e non perché Obama sia esageratamente moderato e centrista, ma perché sa bene che una tale presa di posizione gli costerebbe molto in termini elettorali in un paese dove il 45% dei cittadini ha un’arma in casa, il 55% è a favore di mantenere o di rendere ancora meno restrittive le norme sul possesso delle armi, e il 53% è contrario alla proibizione della vendita ai privati di armi da guerra.
Ancora più difficile da comprendere – almeno per un osservatore europeo – è la possibilità che un Partito Repubblicano palesemente schierato a favore degli strati più abbienti della popolazione riesca ad ottenere consensi sufficienti per portare il proprio candidato alla Casa Bianca.
Gli attivisti di Occupy Wall Street hanno lanciato con successo lo slogan che contrappone il “99%” di cittadini normali, che soffrono per la crisi, all’ “1%” di super-ricchi. E lo stesso Obama, pur parlando di Wall Street contro Main Street ed essendo certo sensibile a Main Street più di quanto non lo siano i Repubblicani, nei fatti si è comportato con ambivalenza: la sua politica economica (basti vedere chi fa parte del suo staff economico) è risultata certo sensibile a Main Street più di quanto non lo siano i Repubblicani, ma ha trattato Wall Street con più di un occhio di riguardo – come lamentano columnists progressisti tra i quali Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Robert Reich. E ciò nonostante le clamorose illegalità e le incredibili truffe che spiegano almeno in parte l’attuale crisi, per cui secondo la prestigiosa Transparency International, dal 2001 an 2011 gli Stati Uniti sono passati, nell’ “indice dei paesi meno corrotti”, dal 16° al 24° posto.
Nel momento in cui un super-capitalista come Warren Buffett (uno degli uomini più ricchi del mondo) ammette che negli Stati Uniti c’è una guerra di classe, e che la sua classe la sta vincendo, Obama si sforza pur sempre di evitare i toni troppo polemici per non apparire “anti-business”. Cosa che peraltro viene comunque accusato di essere dai Repubblicani. Anche qui si tratta, molto probabilmente, di una moderazione ispirata dalla consapevolezza della realtà politica che caratterizza gli Stati Uniti, un paese in cui persino una consistente percentuale di classe medio-bassa è contraria all’aumento delle tasse ai più ricchi. Ma è proprio il tema del bilancio federale (tasse e spese) che rappresenta il cavallo di battaglia di un candidato alla vicepresidenza, Ryan, su cui i Repubblicani stanno palesemente puntando per compensare lo scarso carisma di Romney. Ecco come Foreign Affairs, certo non portavoce di “Occupy Wall Street”, ma quanto di più mainstream esiste in America, descriveva (quando Ryan era solo un parlamentare del Wisconsin) la sua proposta di riforma fiscale: una riduzione del bilancio federale dal 24 attuale al 16% del PIL, con il 62% dei tagli che graverebbero sui meno abbienti, che si vedrebbero anche aumentare le tasse come risultato della riduzione degli sgravi fiscali per i lavoratori dipendenti. “Nel frattempo – continua l’articolo – il piano di Ryan comporterebbe per chi percepisce redditi superiori al milione di dollari una riduzione fiscale di 265.000 dollari, che si aggiungerebbero ai tagli già introdotti da Bush.” Che l’ideatore di un simile piano possa ottenere il voto di elettori non milionari è, per noi europei, un vero mistero.
Il fatto è che, dal controllo sulle armi alle diseguaglianze economiche, l’ideologia americana non solo è sopravvissuta, ma paradossalmente si è radicalizzata dopo la sconfitta della principale ideologia contrapposta, quella del comunismo. Anzi, da quella sconfitta molti in America hanno rafforzato il proprio profondo convincimento che “lo Stato (gli americani dicono government) è il problema e non la soluzione”. E si arriva al grottesco: un accademico americano che, pur dicendosi favorevole a maggiori controlli sulle armi in mano ai cittadini aggiunge però che “ la polizia pretenderebbe il monopolio delle armi da fuoco, cosa che come cittadini amanti della libertà non possiamo ammettere”; un manifestante del Tea Party che, in una dimostrazione contro la riforma sanitaria di Obama, inalbera un cartello: “Governo federale: giù le mani dal mio Medicare!” (come noto, un programma federale di assistenza sanitaria agli anziani).
A ciò si deve infine aggiungere il livello inconfessabile – quello razziale – dell’ostilità di molti americani nei confronti di Obama.
Detto tutto questo, è ancora possibile, anzi, piuttosto probabile, che avremo un suo secondo mandato presidenziale: un mandato in cui, come rivelato da un “microfono aperto” in occasione di un suo colloquio con Medvedev lo scorso marzo, il non dover tener conto della necessità di essere rieletto gli permetterà di essere più apertamente e convincentemente progressista – quantomeno in politica estera.
La rielezione di Obama sarà probabilmente dovuta al suo chiaro vantaggio in determinati settori dell’elettorato: i neri, i latinos (sensibili alla questione dell’immigrazione), i giovani (i sondaggi danno ad Obama dal 12 al 24% di vantaggio su Romney fra gli elettori tra i 18 e i 29 anni), le donne (comprensibilmente preoccupate delle posizioni “patriarcali” dei Repubblicani, con il mormonismo di Romney e il cattolicesimo tradizionale di Ryan.)
Su questa prospettiva, però, pesa una tremenda incognita: la possibilità che prima di novembre Obama si trovi a dover fare fronte a una guerra con l’Iran. Una guerra certo non voluta (e che la presente amministrazione sta cercando di scongiurare aumentando le dosi delle sanzioni e dando garanzie ad Israele), ma che oggi non si può escludere. Un attacco di Israele all’Iran metterebbe Obama di fronte a due opzioni ugualmente perdenti: da un lato una terza guerra in Oriente con prospettive di successo ancora più scarse di quelle contro Iraq e Afghanistan, dall’altro una presa di distanza da Israele che verrebbe presentata come un “tradimento” soprattutto da Romney (fra l’altro, amico personale di vecchia data di Netanyahu). Un evento esterno di tale portata renderebbe, d’un colpo, secondarie tutte le valutazioni tattiche e di posizionamento politico interno che abbiamo ricordato.