Lo stato dell’Afghanistan

Manca circa un anno al ritiro del contingente ISAF della NATO in Afghanistan e al suo ridimensionamento nella missione Resolute Support, e prima di allora il paese affronterà le elezioni presidenziali in aprile. I nodi da sciogliere restano molti e complessi.

Il processo di pace
La riconciliazione nazionale sembra a un punto morto. L’apertura di un ufficio politico dei talebani a Doha, in Qatar, premessa di un possibile dialogo ufficiale, non ha dato i frutti sperati e ha anzi esacerbato le posizioni. Hamid Karzai e il suo Consiglio di pace, unico attore negoziale possibile per il governo di Kabul, si sono irrigiditi sia per il fatto che gli americani, scavalcando il governo afgano, hanno tentato di condurre trattative separate, sia per il fatto che il riconoscimento formale della delegazione all’estero è sembrato loro troppo rapido e in grado di fornire ai talebani un asso in più da giocare. L’unica novità sembra l’atteggiamento del Pakistan, che ha ammorbidito i toni con l’arrivo del neo premier Nawaz Sharif e ha ottemperato ad alcune richieste di Kabul sulla liberazione dei prigionieri talebani (da utilizzare eventualmente come mediatori). Ma le posizioni restano per ora distanti e nessuno degli attori esterni (Islamabad, Washington, ma anche Teheran) sembra disposto a dare manforte al governo legittimo perché la trattativa sia condotta su binari trasparenti e alla fine risolutivi.

Ritiro e sicurezza
La sicurezza del Paese è tuttora il grande fattore di debolezza del governo e della comunità internazionale – che non riescono a garantirla fuori dai maggiori centri urbani. Il post-2014, col ridimensionamento del contingente NATO, appare agli afgani più una ritirata strategica e un problema di spesa e consenso interno che non una strategia in grado di aiutarli veramente. Italiani e tedeschi, con circa 4.000 soldati, continueranno a presidiare il Nord e l’Ovest con programmi di formazione di esercito e polizia, mentre britannici e americani restano un’incognita. Quel che è certo è che termineranno le operazioni combat entro la fine del 2014 e si aprirà la nuova fase di Resolute Support. Quanto sarà davvero “risoluto” il sostegno internazionale resta da vedersi. Sul fronte della ricostruzione civile ci sono per ora promesse e fondi per altri quattro anni, e questo impegno sarà decisivo per non abbandonare gli afgani sul piano dello sviluppo.

Il contenzioso con gli americani
I numeri del contingente americano non sono ancora definiti ma nel 2015 potrebbe trattarsi di circa 10.000 uomini, molti dei quali sarebbero però impegnati nella difesa delle basi militari di cui Washington vuole assicurarsi il controllo soprattutto in chiave anti-iraniana. Ma al momento la firma dell’accordo tra le due capitali è bloccata essenzialmente dalla richiesta d’immunità per le truppe USA su suolo afgano. Mal tollerata durante gli ultimi dodici anni, oggetto di polemiche continue, l’immunità è un nodo che per ora non si scioglie. L’accordo di partenariato militare (Bilateral Security Agreement – BSA) dovrà comunque passare per il parere di una Loya Jirga, la grande assemblea consultiva a cui parteciperanno almeno 2.500 notabili, che Karzai ha convocato in novembre e che finora è sempre servita a ratificare le sue scelte. Per l’attuale presidente, che in aprile dovrà comunque ritirarsi a norma di Costituzione, si tratterebbe dell’ultimo atto politico rilevante per lasciare un’eredità al paese.

Le elezioni presidenziali

Karzai spera che il suo successore sia un personaggio di cui si fida e attraverso cui poter ancora esercitare influenza. Tra i numerosi candidati egli può puntare soprattutto sul fratello Qayum (che non ha però molte speranze), su Ashraf Ghani e su Abdul Rasoul Sayyaf. Ghani ha un passato specchiato ma non ha grande seguito né particolare influenza, anche se è in ticket col potentissimo generale Dostum, un ex signore della guerra già ministro di Karzai e in grado di controllare una buona fetta dell’elettorato non pashtun nel Nord. Sayyaf è un altro ex signore della guerra, con relazioni forti in ambito tribale e una catena di rapporti personali estesa e potente. Ma sia Dostum sia Sayyaf sono anche personaggi impresentabili a un gran numero di afgani, proprio per il triste e crudele passato che li accomuna. Dostum ha mostrato una certa abilità politica scusandosi pubblicamente per i propri trascorsi, e finora la comunità internazionale, come già in passato, ha chiuso un occhio.

Il grande incomodo resta Abdullah Abdullah, nemico giurato di Karzai con forti relazioni nel Nord e buoni appoggi politici. È stato sconfitto nelle passate elezioni a colpi di frodi elettorali, e dunque è difficile prevedere come andrà stavolta perché lo scrutinio si prevede più rigoroso – in virtù di maggiori controlli sia afgani che internazionali.

L’economia
Inevitabilmente la guerra ha finito per drogare l’economia afgana, praticamente inesistente quando nel 2001 iniziò il conflitto con quel che restava dell’emirato di mullah Omar. L’aiuto esterno costituisce oggi oltre il 90% del PIL, e gli introiti dell’economia sommersa (in gran parte legata al narcotraffico) sarebbero valutati a circa la metà della ricchezza legalmente a bilancio. Inoltre, l’enorme massa di valuta pregiata entrata in Afghanistan ha finito per rafforzare l’afghanis su dollaro e euro, rendendo molto più competitiva l’offerta dei paesi vicini (che intanto hanno svalutato mediamente del 40% le loro divise). Con un export in deficit, un’economia formale sovvenzionata, un’agricoltura arretrata e quasi la totale assenza di prodotti industriali, l’Afghanistan deve inoltre fare i conti con l’ingresso annuale di circa 400.000 giovani nel mercato del lavoro, dominato dal lavoro informale stagionale e privo di tutele sindacali. Sta ora diventando ineludibile la questione di come far camminare sulle proprie gambe un’economia assai poco sviluppata e drammaticamente distorta dalla guerra.

La governance
Chiunque vinca le elezioni si troverà di fronte a un altro grave problema, oltre all’economia e alla sicurezza: la struttura della macchina pubblica, strangolata da una corruzione endemica. La corruzione era un tempo accettata con rassegnazione, ed ora è quantomeno oggetto di un acceso dibattito interno che può influire sul consenso politico. Rendere più efficiente l’amministrazione è stato uno dei cavalli di battaglia della comunità internazionale, che però ha sfiorato soltanto i ministeri o le istituzioni bancarie ma non ha intaccato la questione culturale più profonda; anzi, il massiccio afflusso di denaro dall’estero (con scarsi meccanismi di controllo nonché episodi di favoritismo per le industrie nazionali dei paesi donatori) ha favorito speculazioni e rapidi arricchimenti inedibiti.

Il quadro regionale
La pace in Afghanistan non si può fare senza l’aiuto, la non ingerenza o quantomeno la non ostilità dei suoi vicini. I passi per un’alleanza regionale che favorisca la pacificazione sono stati tardivi e sono al momento ancora molto fragili. Il cosiddetto Processo di Istanbul, avviato due anni fa, avrebbe probabilmente dovuto iniziare molto prima e forse accompagnarsi a una revisione del mandato delle truppe che stazionavano e stazioneranno in Afghanistan. I due livelli – diplomatico e militare – sono invece stati tenuti separati, come se non fossero le facce della stessa medaglia. Un processo di convergenza e integrazione è comunque avviato, pur se dipende da numerosi fattori endogeni (la diffidenza degli afgani verso Islamabad, Teheran e Mosca) ed esogeni, il primo dei quali sono le agende geopolitiche delle potenze regionali, che restano in buona misura tra loro competitive.

 

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