L’incontro fra i tre imperi

Il Papa che piace agli americani ma divide l’America è un interlocutore ideale per Barack Obama. Molto più del presidente cinese Xi Jinping, che ha cominciato a sua volta la propria visita di una settimana negli Stati Uniti. Simbolica la differenza fra i viaggi dei Capi degli altri due imperi rimasti: il Papa argentino è arrivato da Cuba; il presidente cinese è approdato a Seattle, sede dei maggiori clienti industriali di Pechino, a cominciare da Microsoft e Boeing. Chi è il “comunista” fra i due? Per la destra conservatrice americana non c’è dubbio: l’imperatore rosso, il leader di Pechino, non condannerebbe mai il capitalismo nel modo in cui invece lo sta facendo il Pontefice. 

Con il presidente cinese, Obama dovrà trattare temi ostici: le rivendicazioni territoriali nel Mar della Cina meridionale, le oscillazioni dello yuan, lo spionaggio elettronico. Il tentativo di Barack Obama, in coda di mandato, è di negoziare con Xi Jinping un trattato – che guarda al futuro più che al passato – di non aggressione nel cyber-spazio. Nel frattempo i rapporti di forza si sono riequilibrati. Dopo anni di profezie abbastanza sballate sul declino americano e il sorpasso cinese, l’America appare relativamente più forte; la Cina relativamente più debole, soprattutto dopo che la crisi finanziaria di estate ha eroso la fiducia nelle capacità dello Stato di guidare il mercato. Più debole, tuttavia, non significa più facile da gestire. Anzi: una Cina insicura all’interno – alle prese con il primo rallentamento della crescita da quattro decenni a questa parte – è potenzialmente più aggressiva all’esterno. Per l’imperatore di Pechino, il nazionalismo è l’ideologia sostitutiva del comunismo. Mentre sfumano così i presupposti di un G2 – quel mondo a guida sino-americana previsto dalle tesi ottimistiche sulla globalizzazione economica – si confermano invece le ragioni del pivot di Washington verso l’Asia: la svolta strategica compiuta dalla politica estera americana, con un disimpegno parziale dai teatri mediterranei e mediorientali che interessano primariamente l’Europa. Il dialogo con la Cina, visto da Washington, non è fondato su una vera partnership; è concepito piuttosto come parte di una strategia asiatica di contenimento, che prevede un ruolo militare più attivo del Giappone e il difficile negoziato sul TPP, il trattato commerciale (non esteso a Pechino) fra le due sponde del Pacifico.

Con il Pontefice, il dialogo avviene su un piano completamente diverso, come dimostra l’incontro di ieri alla Casa Bianca: è un incontro fra mondi ideali piuttosto che fra Imperi territoriali. “Lei ha risvegliato la nostra coscienza dal sonno” – ha detto Obama a Papa Francesco. Eppure, sarebbe sbagliato sottovalutare l’apporto potenziale di Bergoglio alla costruzione della legacy (l’eredità politica) di Obama. Sul piano diplomatico, la chiusura del cinquantennale confronto fra il Davide cubano e il Golia americano – voluto, favorito e benedetto dal gesuita argentino – riduce l’anti-americanismo latente di alcune cancellerie sudamericane; aprendo, potenzialmente, nuovi rapporti fra Nord e Sud. L’America “panamericana” potrebbe diventare, così, una delle eredità di Obama. E proporsi come versione accettabile del ripiegamento strategico degli Stati Uniti; non su di sé, in una versione aggiornata delle vecchie pulsioni isolazioniste, ma sul proprio continente intero.

C’è un’altra sponda possibile offerta da Bergoglio alla diplomazia dell’ultimo Obama: l’incoraggiamento al dialogo con gli avversari e i rivali. Prima con l’Iran. Oggi con Mosca, nel segno – dal punto di vista del Vaticano – della riconciliazione con il mondo ortodosso; e del contrasto congiunto al terrorismo islamista a protezione dei luoghi santi e delle minoranze cristiane.  

Infine – lo si è visto alla Casa Bianca dove il Papa ha introdotto se stesso come “figlio di una famiglia di emigranti”; lo si vedrà ancora più alle Nazioni Unite – Francesco tocca la corda delle risposte alle questioni globali del nostro tempo: dalle disuguaglianze sociali, ai rifugiati, al climate change. Obama è sensibile, ma qui sarebbe fuorviante forzare più di tanto le convergenze possibili: la Laudato sì – l’Enciclica Papale che ha al centro il rapporto fra Uomo e Natura e propone il valore metapolitico della solidarietà – va comunque più in là delle posizioni liberal nell’impero americano.

Accettando di parlare al Congresso su invito dello schieramento trasversale cattolico guidato da Nancy Pelosi e John Boehner, Francesco pesa solo apparentemente a favore di una parte in un anno elettorale. Potrà dispiacere ai Repubblicani; ma non riflette il mainstream democratico. E complica la vita già complicata di Hillary Clinton; che infatti si tiene a distanza.

Esattamente come Obama, Bergoglio è del resto un uomo pragmatico; parlerà oggi al Congresso sapendo dove fissarsi dei limiti (richiamerà la politica – ha anticipato – a restare fedele ai valori fondativi della nazione americana). Assai più di Obama, peraltro, il Pontefice romano vive di umanità piuttosto che di cerebralità.

La conseguenza? Con Xi Jinping, il presidente americano dovrà fare politica e business. Con Francesco, ha dovuto mettere in gioco anche la propria umanità: quella che è sembrata mancare per larga parte della presidenza americana e che sta lentamente riapparendo quasi fuori tempo massimo. L’appoggio essenziale del primo Papa “francescano” al primo presidente afro-americano potrebbe essere proprio questo: incoraggiare Barack, che sta tentando di farlo, a ritrovare se stesso.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa il 24 settembre 2015.

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