Da tre anni privo di legislativo, l’Egitto sta eleggendo il parlamento più grande della sua storia: 596 deputati, 124 in più rispetto alla vecchia assemblea. Durante due tornate elettorali, quella terminata il 19 ottobre e quella che si terrà il 22-23 novembre, gli elettori sceglieranno tra i candidati individuali (448) e di lista (120), ai quali si sommeranno i 28 parlamentari nominati dal presidente Abdel Fattah al-Sisi. Numeri a parte però, poche le novità che si attendono dalle urne. Con un risultato scontato, il dato più atteso è quello dell’affluenza.
Tutto questo nonostante la lunga attesa alla quale sono stati costretti gli egiziani, privati del loro organo legislativo praticamente dal gennaio 2011. In questo lasso di tempo, a legiferare è stato esclusivamente il potere esecutivo, che si è servito dello strumento del decreto. Da quando è diventato capo dello Stato, Al-Sisi esercita non solo il potere esecutivo – come previsto dal suo mandato – ma anche quello legislativo, che è ancora formalmente nelle mani di nessuno. Ecco perché molti analisti si chiedono quanto l’ex-generale senta davvero il bisogno – immagine internazionale a parte di un’assemblea con la quale confrontarsi.
È comunque un parlamento per il quale competono soprattutto candidati individuali che provengono dai circoli del vecchio regime. Mubarak è stato deposto, la sede del suo partito bruciata dai rivoluzionari, ma quasi la metà dei candidati a queste elezioni ha per anni camminato nei corridoi del National Democratic Party, NDP. E se si passa ad osservare le liste, il quadro non cambia di molto. Quella più accreditata, “For the Love of Egypt”, è composta soprattutto da vecchi ufficiali, rappresentanti dell’intelligence, ex-membri dell’NDP, giornalisti e intellettuali vicini ai militari e al presidente. Ad affiancarli è la lista dell’“Egyptian Front” che insieme all’“Independence Current” candida altri ex membri dell’NDP più vicini all’ala di Ahmed Shafiq, ultimo premier di Mubarak. Visto che la frastagliata opposizione di sinistra sta ancora valutando se boicottare o meno i seggi, gli unici avversari del “nuovo” regime sono i salafiti di Al-Nour che hanno invitato anche i copti a scendere in campo con loro, provocando l’ira e le critiche del capo della chiesa copta, Papa Tawadros. Forte in alcune regioni storicamente più vicine agli islamisti, Al-Nour non potrà però contare sui voti degli ex-elettori della Fratellanza musulmana, i cugini che ha contribuito a fare uscire di scena – partecipando alle manifestazioni del luglio 2013, conclusesi con la deposizione del presidente islamista Mohammed Morsi.
I Fratelli musulmani sono nuovamente confinati, dal dicembre 2013, alla clandestinità ed esclusi dalla vita politica del paese, perché ritenuti un’organizzazione terroristica. Stanno ora cercando di riorganizzare la loro leadership sconvolta da retate, arresti e condanne di morte di massa (poche delle quali eseguite, ma pur sempre comminate in gran numero e in modo sommario). La Fratellanza deve poi fare i conti con uno scontro interno che rischia di cambiare il carattere dell’organizzazione. Infatti, mentre quanti sono riusciti a scappare si sono rifugiati in Qatar e Turchia da dove cercano di coordinare la loro resistenza, chi è rimasto in Egitto non è disposto a cedere le redini del movimento che si è dovuto però riorganizzare, affrontando la necessità di agire nuovamente solo in modalità clandestina.
All’interno del paese, la riorganizzazione della leadership è passata attraverso un processo di consultazione interno che ha portato all’elezione, nel febbraio 2014, di una commissione per la gestione della crisi. Anche se Mohammed Badie – guida suprema del movimento, condannato a morte e in prigione dal 2013 – è stato confermato leader spirituale, i militanti hanno eletto anche il vertice di quella che chiamano la “commissione per la gestione della crisi”. L’organo è coadiuvato da un segretario incaricato di supervisionare le questioni prettamente organizzative e da un ufficio per gestire gli affari esteri della Fratellanza.
Secondo Georges Fahmy, ricercatore egiziano presso il Carnegie Middle East Center di Beirut, con queste nuove elezioni si sarebbe sostituito il 65% della leadership. Il 90% di queste new entry sarebbero giovani, ovvero quei quarantenni che solo tre anni fa la vecchia leadership considerava troppo freschi per far parte dell’esecutivo del movimento.
Questo cambiamento ha avuto un riflesso immediato sulla tattica politica della Confraternita. Ritenendo fallimentare la gestione dei loro predecessori, sembra che i più giovani non si facciano scrupoli a tornare alla lotta armata, caratteristica della Fratellanza dei primi decenni. Per ora l’obiettivo sembra quello di farne un uso limitato, ricorrendovi solo per operazioni che mirano a colpire il regime, ma non nei confronti di civili.
Anche questo approccio sembra però ora essere messo in discussione da un recente comunicato ai media, inviato dagli organi di comunicazione della Fratellanza stessa, che è critico nei confronti dell’attuale gestione. Secondo quanto scritto in questo messaggio, sulla cui autenticità si è aperto un dibattito che ha coinvolto Fratelli egiziani, londinesi, qaterini e turchi, la Confraternita dovrebbe rivedere la sua tattica, pensando magari di partecipare alla competizione politica in base a qualche forma di accordo con gli altri partiti ammessi.
Per il momento però, la principale forza di opposizione al regime non ci sarà e questo renderà le prossime elezioni prive di una vera competizione. A partecipare, e quindi anche a vincere, saranno soprattutto candidati collusi con il vecchio regime e con una buona disponibilità economica che ha permesso loro di condurre una campagna elettorale, per quanto blanda. A mostrarlo sono anche i numeri dei candidati. Se nel 2011, all’indomani della rivoluzione, a competere erano state oltre 10.000 persone, ora che i seggi da riempire sono ancora di più, i candidati individuali sono circa 5.400, pochi di più rispetto ai 5.100 del 2005 (una delle elezioni più nere dell’epoca di Mubarak).
Ed è possibile che questo scarso entusiasmo si rifletta anche sulla partecipazione elettorale. Una fetta della popolazione non troverà i suoi candidati, e d’altra parte quanti sostengono il regime sanno che questo trionferà anche senza il loro voto. Tutto ciò potrebbe quindi influire sull’unica vera variabile ancora incerta del voto, cioè il tasso di affluenza alle urne.
Per il resto ci prepariamo a un quadro già visto: elezioni non realmente competitive, dove a giocarsela saranno solo quanti ne hanno la possibilità – politica ed economica. A cui seguirà la nascita di un parlamento acquiescente. È per questo che Al-Sisi non sembra troppo preoccupato di vedere limitato il suo potere da un legislativo che molto probabilmente si limiterà a timbrare e avallare le sue decisioni.