Tutto l’intervento internazionale in Afghanistan è avvenuto sotto l’insegna dell’andare avanti ad occhi chiusi. Durante l’Amministrazione Bush, l’intero Occidente ha vissuto il sogno politico di un progetto rivoluzionario, destinato a ridisegnare molte delle dinamiche delle relazioni internazionali. Un progetto da perseguire a dispetto di tutte le cassandre, e sordi ad ogni monito che venisse dalla composita comunità degli attori internazionali. Il risveglio è stato brusco, e offuscato da molte ombre, e c’è il rischio che si preferisca ancora evitare di riflettere davvero sugli errori. Vorrei soffermarmi almeno su quegli aspetti che hanno segnato profondamente il sistema internazionale degli aiuti.
Gran parte del problema può essere riportato alla relazione tra militare e civile, sia nel senso di aver privilegiato sproporzionatamente e in modo acritico soluzioni basate sull’impiego della forza, sia in quello di aver tentato di abbattere definitivamente il diaframma che separa questi due strumenti, per riportarli sotto un unico comando politico – rinunciando alla possibilità di sfruttare positivamente i vantaggi della loro diversità e complementarità. In nessun caso come in Afghanistan si è assistito ad una tale confusione di ruoli e strategie.
Fin dall’inizio, l’Occidente si è cullato nell’illusione del quick fix: una soluzione essenzialmente militare, dai costi elevatissimi ma contenuta nel tempo, cui far seguire una fase di ricostruzione da portare avanti con calma, per opera di imprese internazionali, in un quadro ormai stabilizzato. Com’era facilmente prevedibile, la scarsa conoscenza del contesto, assieme alla mancanza di un appropriato processo politico che accompagnasse l’azione bellica, hanno presto creato problemi di sostenibilità: l’intervento sta ormai per compiere dieci anni, e se forse è ancora presto per parlare di un vero e proprio fallimento, certamente nessuno osa parlare di successo sul piano tattico e strategico.
Nel frattempo, fino al 2005 l’Afghanistan ha ricevuto la più bassa quota di aiuto procapite rispetto a tutte le principali operazioni internazionali condotte dagli anni Novanta in poi: soltanto 57 dollari a persona, molto meno di Timor Est (256 dollari), della Bosnia (249), o della West Bank e Gaza (219). Dal 2005 ad oggi la quota è salita gradualmente a 98 dollari, ancora molto lontana da standard minimi di efficacia. Se la chiave del successo nei processi post-bellici è sempre stata nella capacità – o meno – di produrre un salto di qualità in sicurezza, benessere, risanamento delle “piaghe” della guerra, riconciliazione, vitalità economica e culturale, miglioramento dei servizi, rapido ritorno a una vita normale, tutto questo è proprio ciò che in Afghanistan è mancato.
Questo insuccesso è in parte dovuto al mancato rispetto degli impegni assunti dagli stessi donatori, che hanno effettivamente allocato soltanto il 60% delle somme stanziate, e per altra parte a meccanismi che riportano indietro al paese donatore circa il 40% dei finanziamenti, in forma di profitti per le imprese e di onorari per gli esperti internazionali (quelli impiegati full-time nelle compagnie private ricevono tra i 250.000 e i 500.000 dollari l’anno). Di fatto, solo un terzo dei fondi finora impegnati sono effettivamente arrivati sul terreno. Per di più, si tratta di soldi spesi male: corruzione e speculazione impazzano. “C’è un vero e proprio saccheggio in corso da parte delle compagnie private”, denunciò nel 2005 il direttore della World Bank a Kabul, “In trent’anni di carriera non ho mai visto una cosa del genere”. In sostanza, oggi la comunità internazionale spende nel paese circa 140 milioni al giorno per l’azione militare e solo 7 milioni (e male) per quelle d’aiuto umanitario e ricostruzione. Un rapporto 20 a 1.
Peraltro, per evitare di alimentare la corruzione, due terzi degli aiuti – secondo l’OCSE – vengono veicolati aggirando le autorità afgane, facendo così saltare ogni forma di pianificazione e di ragionevole distribuzione delle risorse, per concentrarsi su azioni concepite per produrre risultati rapidi e visibili, piuttosto che effetti sostenibili sul lungo termine.
Oltre a questi problemi, esiste ovviamente quello della sicurezza. Il paese presenta enormi difficoltà di accesso alle agenzie internazionali e locali: almeno due terzi del territorio sono fuori dalla loro portata, vuoi per l’attiva presenza di milizie armate (talebane e non), vuoi per l’immensa diffusione di mine antipersona, vuoi per l’azione di taglieggiamento praticata da warlords locali ai danni delle forniture umanitarie. L’azione si concentra quindi sulle aree più sicure, dove i singoli donatori abbiano una loro presenza militare e, soprattutto, dove agiscono i Provincial Reconstruction Team (PRT). Promossi da 14 paesi (di cui 12 membri della NATO), questi gruppi sono spesso integrati da civili, per lo più alle dirette dipendenze del proprio governo nazionale, ed operano senza alcun coordinamento fra loro o con la complessa macchina degli aiuti internazionali e di quelli dello Stato. Le loro metodologie possono essere profondamente diverse e raramente corrispondono alle good practices del settore: ne risulta un impatto insignificante ma che, a volte, mina gli obiettivi di ricostruzione di medio e lungo termine a beneficio di vantaggi tattici di corto respiro e, peraltro, del tutto teorici.
Il lavoro dei PRT risulta a volte l’unica forma di aiuto presente in certe aree ad alto rischio, ma spesso costituisce anche la principale forma di impegno attivo di molte forze militari, a svantaggio della sicurezza. Anzi, esistono solidi elementi per pensare che, facendo sfumare il confine tra forze combattenti e operatori umanitari, abbiano esposto questi ultimi a rischi sempre più gravi, alimentando il sospetto che l’assistenza sia partigiana anziché imparziale. Ne risulta che i Talebani ed altri gruppi armati vedano gli aid workers come un’estensione di ISAF e, pertanto, come legittimi bersagli dell’insorgenza.
Di fatto, il numero di attacchi contro gli operatori civili è cresciuto ogni anno del 40-50%, dal 2005 ad oggi, e l’analisi delle motivazioni dietro queste aggressioni è passata da prevalentemente criminali, come erano fino al 2006, a prevalentemente politiche (nel 65% dei casi) oggi. In questo modo, l’Occidente sta rinunciando ad uno dei suoi strumenti più efficaci per riportare stabilità nel paese e conquistare il consenso della popolazione.
Questi problemi, a mio avviso, non emergono in modo evidente nelle conclusioni della Conferenza di Londra. Ci si limita a raccomandare un ruolo più marcato del governo afgano nel coordinamento e nella canalizzazione dei fondi, pur sapendo che questo richiede prima un progresso marcato nella sua presenza sul territorio, nella qualità della governance e nella lotta alla corruzione, ed è quindi ben al di là da venire.
Qualche speranza in più si può affidare al cosiddetto “civilian surge”, che però nasce essenzialmente sotto il segno della NATO, con la nomina di un NATO’s Senior Civilian Representative. Quale possa essere la competenza delle strutture dell’Alleanza nella gestione di queste attività resta tutto da vedere, mentre rimane irrisolto il problema di garantire l’autonomia degli obiettivi militari da quelli umanitari e di sviluppo, che certamente non potrà essere superato con questa formula.