Le condizioni di una svolta nucleare con l’Iran

Mossa tattica o mutamento strategico: la difficoltà nel capire Teheran
Per definizione, l’Iran è imprevedibile. La natura complessa, poliforme e frammentata della sua élite di potere post-rivoluzionaria non facilita il compito di capirne gli obiettivi politici e le aspirazioni. Meno ancora le sue percezioni reali di insicurezza, oscurate come sono da mosse tattiche, pronunciamenti retorici e contraddittori.

Tuttavia, pur fra le nebbie di questa opacità, sono visibili alcune costanti strategiche della politica estera e di sicurezza. Costanti che si collegano ad aspirazioni ed esigenze dell’Iran in quanto tale, non solo della Repubblica islamica, e relative al suo status  internazionale e al suo ruolo di pivot regionale, oltre che ovviamente alla difesa dello Stato da ogni “minaccia esistenziale”.

Il programma nucleare iraniano e, in particolare, il pieno possesso della tecnologia per l’arricchimento dell’uranio, sono divenuti nel corso dell’ultima decade uno di questi obiettivi strategici, legati all’obiettivo di ottenere un “deterrente nucleare funzionante latente”.

Tuttavia, una serie di considerazioni interne e internazionali, legate tanto alla crisi di legittimità del sistema seguita alle contestate elezioni presidenziali del giugno scorso, quanto ai costi politici, economici e finanziari delle sanzioni, sembrano avere spinto Teheran a una variazione strategica sugli obiettivi da raggiungere. O per lo meno, a una riconsiderazione tattica circa la velocità di sviluppo del programma di arricchimento.

E’ difficile dire quanto vi sia di tattico nella maggiore disponibilità iraniana, e quanto di strategico. Secondo chi ritiene vi sia solo un atteggiamento tattico, le aperture iraniane nelle riunioni di Ginevra e di Vienna (peraltro rimesse in discussione dai confusi segnali che giungono da Teheran in questi giorni) derivano dal fatto che gli iraniani abbiano già raggiunto i loro obiettivi minimi. Tuttavia, hanno certo anche influito le offerte dell’Amministrazione Obama di trattative dirette senza precondizioni (sempre ritenute un’umiliazione intollerabile dall’élite al potere). Per altri, maggior importanza hanno le molteplici fratture interne al regime e i crescenti segnali di disaffezione della potente classe imprenditoriale e commerciale dei Ba’zari, i quali stanno inviando all’estero miliardi di dollari, riducendo fortemente gli investimenti in patria, e aggravando ulteriormente la crisi economia.

Come conseguenza, Teheran ha iniziato a maturare l’idea di testare le reali intenzioni dell’Amministrazione  Obama: accettando dunque i primi colloqui diretti con Washington dal 1979, nell’ambito dello scenario a “sei” (i P5+1), e mostrando flessibilità circa il raggiungimento di un possibile compromesso sull’uranio debolmente arricchito già prodotto.

L’ossessione dell’arricchimento: una “exit strategy” tecnica
Sin dall’inizio della crisi nucleare dell’estate del 2003, il nucleare iraniano era stato presentato dal regime, all’interno e all’esterno del Paese, come il diritto inalienabile della nazione a perseguire l’”arricchimento dell’uranio”. Eppure, tutti gli esperti del nucleare civile sanno bene che l’uranio debolmente arricchito (LEU) si può comprare molto più economicamente sul mercato e, con tutta probabilità,  si acquisterà in futuro anche da “banche di combustibile nucleare” gestite dall’AIEA. Dato questo continuo messaggio mediatico della dirigenza iraniana, era evidente che la “exit strategy” risiedeva nel creare un meccanismo che permettesse l’esportazione del LEU iraniano prodotto in un sito “extraterritoriale” (fuori o perfino all’interno dell’Iran), in modo da evitare il cosiddetto “outbreak scenario”, ovverosia l’ulteriore arricchimento a livello adeguato all’utilizzo per una bomba.

In questo modo, effettuando lo “spedizione” del LEU, tutte le volte che si fosse raggiunta una quota critica, si sarebbe permesso all’Iran di “salvare la faccia nucleare”: permettere cioè al paese di continuare l’arricchimento dell’uranio. Corollario di questo progetto era la misura addizionale di convertire subito il LEU iraniano esportato (che rimaneva ovviamente di proprietà iraniana) in combustibile, e quindi sbarre per i suoi reattori nucleari presenti o futuri, essendo in questa forma “meno proliferante”.

Se il piano predisposto a Vienna sarà accettato definitivamente da Teheran nei prossimi giorni si giungerà a una prima vera svolta nella crisi nucleare iraniana, dopo anni di fallimenti.

Il trasporto in un paese terzo della “maggior parte” (1.200 Kg) del LEU prodotto dall’Iran, che alla fine di agosto era di circa 1500 Kg, serve per fugare le preoccupazioni di un “High Enriched Uranium breakout scenario”, almeno con riferimento agli impianti dichiarati ufficialmente. E questo permetterà la sua conversione in sbarre di combustibile finalizzata al Reattore di Ricerca di Teheran (RRT), dato che quello di Bushehr è già garantito da un accordo di “leasing-and-taking-back” con la Russia per il combustibile necessario. Impliciti in questa formula, vi sono due importanti messaggi da parte iraniana: 

– l’arricchimento al 19,75% necessario al RRT viene chiesto alla Russia Ma tecnicamente, l’Iran sarebbe stato perfettamente in grado di farlo con una rapida riconfigurazione di qualche centinaio delle sue centrifughe del tipo IR-1 operanti nel proprio impianto di arricchimento di Natanz. Da notarsi che per il TNP l’Iran avrebbe avuto tutti i diritti di farlo, ma ciò avrebbe forse stimolato una immediata reazione militare di Israele. Quindi si tratta di una “confidence building measure”; 

– la scelta di concentrarsi sul Reattore di Ricerca permette altresì all’Amministrazione di Obama di creare una giustificazione per “sospendere” le sanzioni ONU in atto: quel reattore deve produrre isotopi per scopo medico, che è un’attività consentita dalle sanzioni.

Dal compromesso alla conciliazione
Questi “corollari” all’accordo politico di Ginevra non evitano tuttavia il potenziale rischio di collasso del vero negoziato tecnico e politico. Ciò è dovuto sia alle numerose difficoltà dei dettagli tecnici e legali connessi alla reale applicazione dell’accordo; sia, ancor più, alle tensioni politiche evidenti in Iran, ma che affioreranno anche in Occidente con il progredire del negoziato.

E’ nostra opinione che, per sostenere un vero percorso di risoluzione della crisi nucleare iraniana, i due presidenti Obama e Ahmadinejad debbano passare da un ottica di compromesso a una di conciliazione. A tal fine, si può immaginare che Obama, forte del Premio Nobel per la Pace 2009 – assegnato per il suo sforzo “to strenghthen international diplomacy and cooperation between peoples” – possa offrire un alto Summiti con il Presidente iraniano per sancire la volontà di giungere a un accordo che garantisca entrambi e non umilii alcuna parte in causa. Ma ovviamente, la piena accettazione dell’accordo di Vienna da parte di Teheran è la condizione necessaria di partenza.

 

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