La posizione saudita nei confronti delle rivoluzioni che hanno sconvolto i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente può a prima vista apparire contraddittoria: in particolare, il pieno sostegno alla rivolta in Siria contrasta apertamente con la ferma condanna per quelle in Tunisia ed Egitto, con il tiepido supporto agli avvenimenti in Libia e soprattutto con il ruolo controrivoluzionario svolto da Riyad in Bahrein e Yemen.
In realtà, l’obiettivo principale dell’Arabia Saudita continua ad essere la stabilità regionale e soprattutto, dalla rivoluzione iraniana del 1979, il contenimento dell’influenza sciita. Sia l’Arabia Saudita che l’Iran, infatti, rivendicano il ruolo di messaggeri del vero Islam e lottano per espandere la loro influenza in una regione scossa oggi da rivolte popolari.
Le pressioni saudite per la caduta di Bashar al Assad derivano da preoccupazioni al contempo interne ed internazionali.
In primo luogo, il regime saudita ha cercato di contenere il dissenso interno ribadendo i propri valori sunniti contro un dittatore alawita – cioè, nella prospettiva wahabita, un eretico. Le autorità saudite vedono nella rivolta siriana una sorta di calamita per gli islamisti radicali, guidati da un forte odio per gli sciiti in generale e per l’Iran in particolare, e questa situazione distoglie l’attenzione dai gravi problemi interni al regno dei Saud. L’Arabia Saudita è infatti una delle società più conservatrici del mondo arabo, in cui il potere è gestito dalla ristretta cerchia dei membri più anziani della famiglia reale appoggiati da una potente gerarchia di clero wahhabita. La società è scossa e frustrata dalla corruzione, dalla disoccupazione e dalle continue ondate di repressioni e arresti: alcuni gruppi hanno così sfruttato la guerra civile in Siria come opportunità per manifestare pubblicamente.
In secondo luogo, la Siria gioca un ruolo cruciale nello scontro per la supremazia regionale. Riyad mira ad instaurare un regime filosaudita a Damasco per rilanciare la sua leadership, così da sopperire all’assodata perdita di influenza a discapito dell’Iran in Iraq e Libano, e far fronte alla caduta dei regimi di Ben Ali in Tunisia e di Mubarak in Egitto. Liberarsi di Assad in Siria significherebbe erodere l’influenza iraniana sia nei paesi arabi che si affacciano sul Mediterraneo sia su quelli del Golfo.
La strategia saudita è divenuta più chiara a partire dalla prima conferenza internazionale degli “Amici della Siria” tenuta a Tunisi nel febbraio del 2012. In quell’occasione il ministro degli Esteri Saud al Faisal ha respinto tutte le proposte di negoziato o di transizione “morbida” verso la prospettiva di un governo senza Assad, e ha suggerito di finanziare e armare i ribelli (pur con alcune cautele), auspicando un radicale regime change. La diplomazia saudita ha espresso forti perplessità anche nei confronti dei Fratelli musulmani e del Consiglio Nazionale Siriano, sponsorizzati da Qatar e Turchia. L’Arabia Saudita non vuole rischiare che un eventuale nuovo governo, anche se guidato da sunniti moderati, possa in futuro intrattenere stretti rapporti con l’Iran.
Se pubblicamente la monarchia saudita è stata ambigua circa un sostegno diretto ai ribelli siriani, nel corso dell’ultimo anno è emerso un coinvolgimento diretto di Riyad nell’acquisto di armi e munizioni, così come nell’invio di fondi ai ribelli. Alcuni analisti affermano che re Abdallah Ibn Saud vorrebbe fare di più per l’opposizione armata siriana ma sia stato fermato dagli Stati Uniti, i quali sono sempre più preoccupati che armi sofisticate possano finire nelle mani degli estremisti.
Il rischio in effetti è concreto, poiché la Siria è diventata il principale fronte del jihad nella fase attuale. Predicatori wahhabiti, la maggior parte dei quali fuori del controllo diretto dell’apparato di stato saudita, incitano incessantemente i guerriglieri jihadisti a trasferirsi nel paese per ingrossare le fila dei salafiti-jihadisti locali. Questo fenomeno rischia di trascinare non solo la Siria, ma tutto il Medio Oriente in una spirale di violenza confessionale.
Il re saudita, anche in seguito a forti pressioni internazionali, ha preso atto del rischio imminente e ha cominciato a perseguire i religiosi che incitavano i sauditi a combattere in Siria: i predicatori ufficiali del regno hanno così preso esplicitamente posizione contro una partecipazione alla guerra civile siriana. In sostanza, il governo saudita non può rischiare di produrre un’altra generazione di jihadisti come quella che si recò in Afghanistan negli anni ‘80 e che potrebbe rivoltarsi contro il regime al potere nel paese di origine.
A due anni dallo scoppio delle rivolte nei paesi arabi, le aspettative di libertà e cambiamento sembrano essere diventate ostaggio della rivalità tra Arabia Saudita e Iran, lasciando presagire gravi pericoli di azioni e reazioni a catena: Teheran non ha assunto affatto un atteggiamento passivo di fronte a ciò che percepisce come una minaccia diretta all’avanzata del cosiddetto “arco sciita”.