La Turchia tra il vortice siriano, le sfide interne e il rapporto difficile con la UE

La guerra civile siriana ha innescato un’ondata d’instabilità che rischia di travolgere la Turchia. Ha mandato in frantumi i progetti di Ankara per l’integrazione delle sue periferie mediorientali in una grande area di libero scambio (Giordania, Libano e la stessa Siria), ha scatenato tensioni e ostilità con Usa e Russia, ha riacceso il conflitto con l’organizzazione terroristica curda Pkk, ha esportato attentati suicidi di matrice jihadista perfino nelle aree turistiche di Istanbul, ha trasformato l’Anatolia in magnete per quasi tre milioni di rifugiati e trampolino di lancio verso l’Europa per l’immigrazione clandestina.

Il tutto complicato da ulteriori crisi internazionali: con Israele riguardo l’eccidio della Mavi Marmara il 31 maggio 2010, e con l’Egitto di al-Sisi per la sua repressione del movimento islamista dei Fratelli Musulmani, sostenuto dalla Turchia. E poi da forti turbolenze politiche interne: prima le rivolte giovanili del parco Gezi nell’estate del 2013, poi le inchieste contro i vertici dello Stato – giudicate eversive – da parte di settori della magistratura, della polizia, dell’intelligence legati alla confraternita di Fethullah Gülen, imam che vive da tempo negli Usa. Invece di affermarsi – secondo i piani di Ahmet Davutoğlu, ultimo premier e già ministro degli Esteri – come perno geopolitico di una vasta area stabile e prospera, modello di sviluppo economico e consolidamento democratico in grado di ispirare tutto il mondo islamico, la Turchia si è ritrovata nel giro di pochi anni senza veri alleati o partner strategici nella regione. E sembra ormai avvitata in una spirale di violenza e risposte repressive tale da compromettere il già molto difficile percorso di adesione all’Unione europea.

Quel che è peggio, i leader politici turchi – dopo 5 anni di guerra in Siria – non hanno ancora messo a punto strategie valide per arginare in modo risolutivo la deriva degli eventi. Gli obiettivi della Turchia in Siria sono noti, non sono mai cambiati: rimozione del regime di Bashar al-Assad e transizione democratica, preservazione dell’integrità territoriale anche per impedire il consolidarsi di un’entità statuale dominata dalle fazioni curde estremiste del Pyd/Ypg, la costola siriana dell’organizzazione terroristica Pkk (il timore è che possa diventare una base per attacchi contro il territorio turco). Il governo di Ankara ha però sempre resistito all’ipotesi di un intervento militare diretto, se non all’interno di una coalizione ad hoc guidata dagli Usa o comunque in ambito Nato; continua a proporre a Washington – invano – l’imposizione collettiva almeno di una “safe zone” al confine turco-siriano soprattutto grazie al coinvolgimento dei cosiddetti “ribelli moderati”, che dovrebbe essere libera sia da Daesh sia dai militanti curdi: ciò avrebbe il duplice intento di impedire infiltrazioni di uomini e armi, e intanto di costruire insediamenti per i rifugiati che potrebbero così cominciare a tornare in Siria.

Nel frattempo, la cittadina di Kilis – in territorio turco vicino al confine siriano, a metà strada tra Gazientep e Aleppo, con i suoi oltre centomila rifugiati siriani  (candidata al Nobel per la pace) – è sotto scacco da parte di Daesh: dall’inizio dell’anno, in più episodi colpi di katyusha hanno ucciso 17 persone e ferito alcune decine. Si sono finora rivelati inconcludenti i tentativi dei ribelli sostenuti da Ankara – turcomanni compresi – di neutralizzare le posizioni dei jihadisti: i villaggi rapidamente riconquistati altrettanto rapidamente sono stati abbandonati dopo la controffensiva del califfato.

La Turchia è sostanzialmente isolata, nel teatro siriano: la sua posizione è incompatibile strategicamente con quella della Russia, che appoggia Bashar al-ssad e vuole preservare la sua influenza anche militare nel paese. E lo è tatticamente con quella degli Stati Uniti, preoccupati che ad Assad succeda il caos e impegnati a cooperare con le milizia curde del Pyd/Ypg che – nonostante le proteste vibranti e ripetute del presidente Recep Tayyip Erdoğan in persona – reputano un partner prezioso e affidabile. In sintesi: Ankara è stata costretta a sospendere il “piano A” della grande integrazione regionale, non dispone di alleati per realizzare il “piano B” (rimozione di Assad, neutralizzazione delle milizie estremiste curde e di Daesh), e non ha elaborato alcun “piano C”. Nella situazione attuale la Turchia si limita dunque a reagire – con efficacia limitata – agli eventi che le accadono intorno.

D’altra parte, il governo turco ha però puntato a trasformare in opportunità la crisi provocata dai flussi di rifugiati – prevalentemente siriani, ma non solo – che partendo dalla Turchia attraversano l’Egeo e i Balcani, in direzione Europa centrale e occidentale. Le autorità politiche turche si sono proposte come argine, l’unico capace di contenere la pressione verso il cuore del continente. Nelle intenzioni, il flusso dovrebbe essere bloccato attraverso misure sia di contrasto dell’immigrazione clandestina sia di piena integrazione nel proprio tessuto sociale ed economico dei rifugiati siriani (quelli di diversa provenienza verranno in gran parte rimpatriati). La strategia sta registrando successi solo parziali, ma comunque significativi, che Erdoğan spera di utilizzare per rafforzare anche la loro posizione diplomatica contro Assad e in favore della safe zone.

Sembra intanto funzionare l’accordo con l’UE sull’immigrazione perfezionato il 18 marzo, su impulso diretto della Cancelliera tedesca Angela Merkel: in passato esplicitamente avversa all’adesione piena di Ankara (la sua controproposta: una “partnership privilegiata”), ma pronta a riconoscere l’importanza cruciale di un’intesa sui rifugiati per il futuro dell’Europa unita. Proprio di recente Merkel – insieme ai vertici istituzionali dell’Unione – ha visitato uno dei campi per i rifugiati in Turchia, e ha speso parole di apprezzamento sia per la gestione dei flussi sia per i progetti di integrazione già realizzati. Il meccanismo condiviso – un’idea di Davutoğlu – è molto semplice: sistematico ritorno in Turchia di tutti i richiedenti asilo arrivati clandestinamente in Grecia via mare, accoglienza nei paesi europei di un numero equivalente di siriani registrati in Turchia. Gli sbarchi si sono quasi azzerati – anche se restano preoccupazioni per la tenuta dell’accordo, comunque criticato da più parti per ragioni umanitarie e giuridiche.

La contropartita concordata è duplice: aiuti economici da Bruxelles – 6 miliardi di euro in totale –  come contributo per le spese di accoglienza e integrazione sostenute da Ankara, e rilancio del processo di adesione all’UE. In concreto, la Turchia ha chiesto l’anticipo a giugno della liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi in visita nell’area Schengen già prevista per ottobre, l’apertura in breve tempo di nuovi capitoli negoziali. È stata soddisfatta solo la prima richiesta, subordinata però al soddisfacimento di 72 requisiti tecnici; verrà aperto a breve un solo nuovo capitolo negoziale (il 33, in materia finanziaria), mentre a causa del persistente veto di Cipro rimangono bloccati i capitoli di più immediata rilevanza politica ed economica, su libertà fondamentali, giustizia, energia.

Certo, la riunificazione dell’isola contesa tra greci e turchi, che ora sembra finalmente possibile, rimuoverebbe automaticamente quest’ostacolo: ma è solo con una costituzione pienamente democratica che Ankara potrà soddisfare pienamente i criteri di Copenaghen. La nuova carta, destinata a sostituire quella di stampo autoritario scaturita dal golpe del 1980, è in via di preparazione: il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) non dispone però dei voti necessari alla sua approvazione, visto che le opposizioni sono irremovibili nel rigettarne l’impostazione presidenzialista voluta da Erdoğan. Un muro contro muro che inevitabilmente produrrà nel prossimo futuro nuove crisi interne, e nuova instabilità.

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