La transizione francese dalla sinistra operaia alla nuova destra

Un fantasma si aggirava per la Francia negli scorsi decenni: quello dell’operaio, che dopo una lunga stagione di lotte politiche – come dimenticare le occupazioni delle fabbriche che avevano bloccato il paese nel ’68 e che avevano fatto pensare allo scoppio di una rivoluzione – avrebbe voltato le spalle al suo passato di sinistra per abbracciare il Front National. Si tratta invece di un mito mediatico, di una leggenda evocativa ma poco realista: la classe operaia come tutti la conoscevano si è oggi dissolta e parcellizzata in Francia, a un ritmo più veloce che nel resto d’Europa.

Se ha perso comunque quasi ogni ancoraggio ideologico alla sinistra, non è stata però sedotta dai partiti di destra grazie a un blue collar conservatism di tipo anglo-americano. Anzi, la destra tradizionale francese, quella dell’UMP di Jacques Chirac e Nicolas Sarkozy, si è sempre disinteressata degli operai, preferendo radicarsi in altre categorie sociali, peraltro più numerose, come i commercianti o i piccoli imprenditori. Una parte importante del residuo mondo operaio ha finito per scegliere Marine Le Pen per ragioni che hanno più a che fare con la sua propria evoluzione sociale e geografica piuttosto che a una proposta politica elaborata espressamente nei suoi confronti.

È infatti solo fino alle elezioni presidenziali del 1995 che la crescita del Front National segue, tra le tante variabili, anche quella del tasso di industrializzazione territoriale e della presenza operaia. Quel voto, che vedrà Jean-Marie Le Pen posizionarsi quarto con il 15%, è l’ultimo in cui il successo del FN è nettamente distinguibile da una linea geografica diagonale che taglia la Francia in due parti, lungo un asse che da Brest, a Parigi, a Mentone. A Nord-Est di questa linea, in regioni come la Normandia, il Passo di Calais, la Piccardia, l’Alsazia, la Lorena, la Valle del Rodano, il peso dell’industria continuava a essere significativo se confrontato a un Sud-Ovest economicamente orientato in tutt’altra direzione. La penetrazione del Front National era importante anche nel Midi francese, ma per altre ragioni.

Tuttavia, non erano gli operai di estrazione comunista a scegliere il Front National: cresciuti in fabbriche in cui la presenza politica era forte e la socializzazione degli individui avveniva sotto le insegne dei gruppi di sinistra, questi sostanzialmente mantenevano il loro voto o passavano all’astensione. Fino agli anni Settanta, la prevalenza del voto di sinistra tra gli operai era maggiore del 20% rispetto alla media delle altre categorie.

Erano invece i giovani operai nati negli anni Sessanta e cresciuti in fabbriche già meno politicizzate, e con il posto di lavoro minacciato dalla chiusura, dalla delocalizzazione o dalla concorrenza della manodopera di origine straniera, a scegliere più massicciamente il partito di Le Pen – con la sua retorica in quel momento più nazionalista e xenofoba di oggi. Questa scelta trascinava anche la componente operaia in passato piuttosto moderata verso le posizioni più estremiste della destra.

In effetti, il declino del mondo operaio rappresentava già all’epoca un’opportunità di penetrazione elettorale per il Front National. A Nord di quella linea diagonale, ciò avveniva già all’inizio degli anni Ottanta, soprattutto nelle città a forte presenza magrebina e in cui gli impianti più grandi chiudevano, come Roubaix, Tourcoing, Lille e Maubeuge – tutte parte di una estesa conurbazione industriale al confine con il Belgio che solo di recente ha recuperato una dinamica positiva nel passaggio a un’economia basata sui servizi. A Est di quella linea, in un’area caratterizzata dall’industria estrattiva (l’ultima miniera di carbone chiudeva nel 1990), l’effetto era più tardivo grazie a particolari privilegi economici ottenuti dagli ex minatori – sussidio a vita, alloggi gratuiti, pensioni “rinforzate” – ma comunque si verificava, legato com’era alla disoccupazione della generazione successiva.

Il declino industriale degli anni successivi modifica ancor di più la mappa sociale ed elettorale della Francia. La quota di produzione industriale sul totale del PIL generato dal paese passa – escludendo il settore delle costruzioni – dal 18% del 2002 al 12% del 2010. Un’evoluzione, ad esempio, ben diversa da quella della Germania, in cui questa quota resta stabilmente superiore al 25%; simile invece a quella del Regno Unito. Il tessuto sociale degli operai perde la sua storica unità, dividendosi tra molti lavoratori a bassa specializzazione residenti in territori colpiti dalla deindustrializzazione, e pochi impiegati in produzioni ad alta tecnologia, come l’aeronautica, posizionate strategicamente vicino a grandi centri urbani e vie di comunicazione.

Questa prima categoria diventa il nuovo zoccolo duro del Front National. Anche la mappa elettorale del partito si modifica infatti in quegli anni: si ammorbidisce la contrapposizione Nord-Est/Sud-Ovest e cresce il radicamento lontano dalle città, ma anche lontano dalle banlieue: una frattura non solo geografica ma anche sociale con i centri urbani è ormai evidente.

Al primo turno delle presidenziali del 2012, lo scarto generale tra François Hollande (28,6%) e Marine Le Pen (17,9%) si annullava nella categoria degli operai, in cui entrambi i candidati raccoglievano il 33% dei voti. Gli altri due sfidanti principali, Nicolas Sarkozy per il centrodestra e Jean-Luc Mélenchon per l’estrema sinistra, si fermavano rispettivamente al 12 e al 5%. Inoltre, considerando l’evoluzione geografica del voto del Front National, ci si accorge come dal 1995 al 2012 il risultato ottenuto nelle aree lontane 30-50km dai centri urbani passi dal 2 al 10% in più della media nazionale.

Non si tratta di zone agricole: sono invece piccole cittadine ingrossate appunto dalle lottizzazioni private ed economiche vendute a persone provenienti dalle banlieue, da zone industriali o da centri storici in decadenza, con l’aggiunta di alcuni nuovi quartieri popolari. Gli operai di fascia bassa costituiscono parte importante di un tale orizzonte socio-economico fatto anche di piccoli impiegati e disoccupati, in regioni in cui i tagli al settore pubblico rarefanno la presenza dello stato. Quegli operai sono accomunati – e ciò rappresenta il loro più forte legame di socializzazione politica – da un sentimento di completa esclusione dalla dimensione economica e dalle opportunità dei centri urbani, benché a volte vi continuino a lavorare.

Analizzando la comunicazione politica del Front National ci si accorge che il tema più citato in assoluto è quello della deindustrializzazione – seguito dalla critica alla classe politica, dalla crisi economica post-2008 e dal protezionismo. La destra moderata, che ha governato il paese per quasi vent’anni mentre tali processi avvenivano, non ha per ora alcuna chance elettorale in questi territori, ed è dispregiativamente identificata come “europeista” – a Maastricht è attribuita la colpa delle chiusure delle fabbriche. Proprio la deindustrializzazione è la più forte angoscia verso il futuro per gli abitanti di queste aree “di mezzo”, dove vive il 30% dei francesi, che temono di perdere il loro ultimo e precario aggancio al tessuto produttivo nazionale.

Questa fascia elettorale, in cui gli operai a bassa specializzazione ricadono, non ha nulla a che fare con un’estrema destra ideologica: le sue convinzioni sociali, secondo le inchieste, sono simili a quelle della media nazionale e anche più progressiste in materia di stato sociale. Ma è più che sensibile alla denuncia del degrado economico e dell’allentamento dei legami sociali tradizionali a cui il partito di Marine Le Pen propone di porre rimedio combinando protezionismo e recupero dell’identità.

In tale contesto di fragilità sociale percepita e reale, il Front National ha dunque buon gioco, e crescente successo, nel proporsi come l’unico rappresentante di una Francia dei dimenticati, degli emarginati, degli sconfitti della globalizzazione, contro una Francia delle élite che ha tradito la nazione sacrificandola sull’altare del mercato europeo.

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