Solo un anno e mezzo fa una copertina di Time annunciava al mondo il nome e il volto della stella nascente della jihad globale; era una foto segnaletica in bianco e nero di Abu Bakr al-Baghdadi (cognome peraltro comune, che indica semplicemente la provenienza geografica). Era a quel tempo l’unica immagine che si avesse di lui. All’interno, un’interessante mappa geografica descriveva la rete di Al-Baghdadi riconducendola sotto il marchio di Al-Qaeda e delle sue filiali. Due roccaforti si trovavano in Medioriente, due in Africa.
In poco più di un anno tutti questi elementi sono stati – semanticamente, militarmente e politicamente – riuniti sotto un’unica sigla: IS, lo Stato Islamico del quale Al-Baghdadi è notoriamente il Califfo autoproclamato.
Com’è accaduto che un network ramificato su vasta scala abbia ora le sembianze di una forza unica, dotata di apparato militare, mediatico, clericale e che controlli, secondo le nuove mappe, metà dell’Iraq e della Siria e minacci anche la Libia?
È evidente che si tratta di tre entità statuali fragilissime e dilaniate da guerre sanguinose. La Libia addirittura c’è da chiedersi se sia ancora uno Stato, avendo una struttura bicefala ed essendo ormai in condizione di continua guerra civile, con frequenti incursioni militari di potenze regionali a cominciare dal vicino Egitto.
E ancora: perché lo Stato Islamico – ossia un sedicente organismo statuale – viene indicato con altre due sigle: ISIS e ISIL, che invece rappresentano più propriamente un movimento politico-terroristico?
L’impressione è che alle capacità organizzative e alla determinazione dell’aspirante Califfo Al-Baghdadi corrisponda una ricettività emozionale da parte dell’Occidente, una sensibilità estremamente elevata e tuttavia approssimativa, al limite della psicosi. Un atteggiamento che per orientarsi nella comprensione di un fenomeno – per quanto esso sia oggettivamente serio e preoccupante – tende a enfatizzarne i lineamenti. Insomma, ormai tutto è IS, tutto è Stato Islamico.
Ci conferma questo clima di alienazione il doppio standard con il quale vengono diffusi i video macabri delle esecuzioni, o quelli anche solo disturbanti della distruzione di opere d’arte, e a pochi giorni di distanza la notizia in tono minore che alcuni di quei video sono molto probabilmente dei falsi, e le opere d’arte solo delle copie.
Sintomatico anche come la responsabilità dei recenti fatti di Tunisi abbia un’attribuzione automatica: con poche certezze se sia stata opera dell’ISIS o dell’autoctono gruppo salafita Ansar al-Sharia, già autore nel Paese di un attentato all’ambasciata USA e di due clamorosi omicidi politici.
Senza scomodare la sociologia e la psicologia di massa, è ovvio che a questo punto le armate del Califfato sono ormai penetrate nel quotidiano di molti cittadini nonostante il Califfato non disponga, ad esempio, di vere e proprie armate, ma semmai di milizie o singole cellule spesso composte da uno o due elementi. Infatti, uno dei segreti – che poi segreto non è – della rapida diffusione territoriale dell’ISIS è stata la sua capacità di assorbire e annettere realtà e sigle minori già presenti nei vari scenari di guerra.
La strategia di Abu Bakr al-Baghdadi è stata molto lucida: ha iniziato prendendo il controllo dell’organizzazione nella quale militava (una formazione che l’antiterrorismo statunitense era riuscito a decapitare uccidendo il fondatore e i due successivi leader nel 2010) costruendo poi con metodi draconiani la sua leadership, soprattutto incorporando nei nuovi ranghi i membri dell’ex partito baath iracheno che avevano servito sotto Saddam. Ha quindi annesso al nucleo originario piccole cellule jihadiste che già operavano in alcuni teatri: è il caso della Libia, dove a Derna esisteva una formazione che ha adottato la bandiera nera dell’ISIS e da quella testa di ponte tenta ora di estendere la sua minaccia sul territorio che, come si diceva, per convenzione continuiamo a chiamare Libia. Oggi la linea di confine si è spostata più a ovest, ed è a Sirte.
Sotto la guida di Al-Baghdadi l’ISIS ha lanciato, per dirla con linguaggio economico, una OPA sulla jihad globale: il che non significa che i suoi battaglioni conquistino terreno in una guerra convenzionale e simmetrica, quanto piuttosto che suoi agenti e leader locali riescono ad acquisire, come franchising, gruppi armati già attivi e li convertano, o tentino di farlo, sotto le proprie bandiere. Il caso più emblematico è quello siriano, dove l’ISIS di Al-Baghdadi annuncia come la principale fazione ribelle, Al-Nusra, sia da considerarsi in futuro una parte integrante di ISIS e non viceversa. Allo stato attuale, Al-Nusra si ritiene invece una forza indipendente e legata solo alla casa madre Al-Qaeda. Tuttavia, la capitale dell’autoproclamato Califfato è proprio in Siria, ad Al-Raqqa.
Insomma la peculiare ideologia del Califfato, che la stragrande maggioranza del mondo musulmano in primis considera ormai materia per i libri di storia, torna prepotentemente d’attualità dove trova terreno fertile: e cioè nella galassia di piccole sigle che vengono accorpate da una mano più forte sotto un’unica bandiera, e in un Occidente che orfano di Bin Laden e della sua estetica (le grotte, l’Afghanistan, i videomessaggi sobri) enfatizza l’identikit del nuovo Califfo del terrore – ma sarebbe meglio dire emiro – e con esso una nuova estetica (il deserto, la predicazione in moschea, i video in stile hollywoodiano).
Ora l’ISIS potrebbe essere riuscito ad estendere la sua minaccia anche in Tunisia, dove come abbiamo visto è già attivo un gruppo salafita ben organizzato ma dove parimenti lo Stato tunisino è una realtà apprezzabile. Si tratta infatti dell’unico Paese che abbia realmente compiuto un percorso di Primavera araba, dalla cacciata del dittatore alla nuova costituzione.
Ricordiamo tuttavia che l’ISIS non è Boko Haram, ossia una formazione con specifica connotazione nazionale (Nigeria) e una storia dalle chiare radici identitarie. Forse proprio per questo l’ISIS ha recentemente annunciato l’intenzione di espandersi in Africa e un contemporaneo video messaggio da parte di Boko Haram ha confermato la volontà dei due gruppi di stringere alleanza.
Restando in Africa, per quanto riguarda il Sahel – che ha avuto nel Mali, nel 2012-13, il momento più cruento di insurrezione jihadista – vale lo stesso principio. Le sigle che si rifanno alla tradizione Tuareg sono impermeabili alla “campagna acquisti” dell’ISIS, ma le altre sigle radicali rischiano invece di farsi assorbire, specie dopo il fallimento dell’ennesima conferenza di pace appena conclusasi ad Algeri. In questa regione una campagna di primavera potrebbe essere alle porte. Non è da escludere che potremmo trovaci un mattino con l’ISIS in Mali, ben consapevoli che non si tratta di un movimento di colonne militari del Califfato lungo la striscia sub-sahariana, ma di un’alleanza che permette alla sigla dominante (ISIS) di annettere quelle minori (AQMI e MUJAO).
Ma vedremo anche se in futuro toccherà alla triplice sigla – IS, ISIS, ISIL – il medesimo destino che è capitato alle sigle ad esempio siriane, che al principio della guerra civile erano costantemente evocate e sembravano destinate ad avere voce e ruolo nel futuro del Paese, oppure se si affermerà sempre più come il marchio globale della futura jihad.
Al-Baghdadi è considerato l’erede, per così dire “evoluto”, di Abu Musab al-Zarqawi, il capo jihadista giordano (originario della città di Zarqa) che fondò l’ISIS nel 2004 per poi venir ucciso dagli americani nel 2006. Chiediamoci: l’eventuale soluzione dei conflitti in Siria e in Libia finirebbero per ridimensionare lo Stato Islamico al solo teatro iracheno? Da questa domanda emerge come l’Occidente in particolare, e se vogliamo la comunità internazionale, abbiano una responsabilità nell’ascesa del Califfato immaginario: per avergli permesso di giocare la partita in Siria e Libia; per la palese incapacità, o mancata volontà, di risolvere i problemi dopo averli creati (vedi Libia soprattutto); e infine nel non volersi dare regole deontologiche nel campo dell’informazione, lasciando così l’opinione pubblica in balia della propaganda dell’ISIS che mischia sapientemente verità e finzione.
Il Califfato, in altre parole, è sì sedicente e autoproclamato, ma approfitta dell’imbarazzante vuoto statuale causato dalle lente e contradditorie transizioni di Iraq, Siria e Libia e del palese fallimento delle Primavere arabe o del loro fragile equilibrio, come la Tunisia dimostra.
In conclusione: il Califfato sarà anche posticcio ma la comunità internazionale, su questo dossier, è stata sinora totalmente fallimentare.