Il vertice dell’eurozona del 21 luglio, ha calmato i mercati per un solo giorno. Se prendiamo come indicatore della diffusione della malattia fiscale greca lo spread tra BTP e Bund – riportatosi appena sotto la soglia psicologica di 300 punti base martedì 26 luglio – non si può dire che il contagio si sia fermato. Insomma, per ora il cosiddetto firewall non funziona.
Perché? In parte ci sono motivi tutti italiani, legati all’instabilità politica. Ma non è solo un problema italiano, altrimenti la Spagna dovrebbe andare meglio. E invece il debito spagnolo fa, al solito, un po’ peggio del nostro.
Il fatto è che, a mio parere, il pot-pourri di misure varate la scorsa settimana può forse – sarà da vedere – assicurare un fallimento ordinato della Grecia e a termine un ritorno di quel paese alla solvibilità e alla crescita economica. Ma non funzionerebbe con la Spagna e l’Italia che sono troppo grandi per essere salvate in questo modo. Per salvare l’Italia e la Spagna l’eurozona dovrebbe passare il Rubicone e fare davvero grossi passi in avanti sulla strada dell’unione economica e politica.
Non so se sia paradossale oppure perfettamente logico che siano proprio i mercati (finanziari) a spingere l’Europa verso quella metamorfosi da mercato comune a unione politica intravista e auspicata dai padri fondatori. Ma questo mi sembra di vedere in questi giorni.
Per passare il Rubicone bisognerebbe cominciare dal riprendere la proposta Tremonti-Juncker di sostituire quote (fino all’equivalente del 60% del PIL) del debito pubblico dei singoli paesi dell’eurozona con un debito europeo, emesso da una Agenzia Europea del Debito (AED). Il problema spread verrebbe eliminato alla radice o quasi. Certo ad alcuni paesi membri dell’eurozona, cominciando dalla Germania, il servizio del debito costerebbe un po’ più caro, ma si tratta di cifre sopportabili, addirittura irrisorie se paragonate alla posta in palio.
Forse chi si rifiuta di intraprendere questa strada lo fa perché consapevole che non ci si fermerebbe qui. Perché se lo si facesse, l’Europa sarebbe una specie di mostro con una banca centrale e un enorme debito pubblico, ma senza un Tesoro e con un bilancio irrisorio pari all’1% del PIL. Si porrebbe inevitabilmente il problema di attribuire all’Europa funzioni di governo tali da costituire un bilancio più sostanzioso e quindi un Tesoro degno di questo nome.
Non ci sarebbe bisogno di un enorme bilancio, né di molte funzioni di governo. Niente superstato tanto temuto dagli euroscettici. In realtà basterebbe una federazione leggera che assorba e spenda attorno al 5% del PIL europeo per consentire all’Unione di svolgere – anche e all’occorrenza – funzioni di stabilizzazione macro-economica e redistribuzione.
Già la redistribuzione. È diventata quasi un insulto, visto l’uso prevalente in Germania del termine transfer union come sinonimo spregiativo di federazione. Eppure le unioni, le federazioni, servono inevitabilmente anche a questo, non esclusivamente, ma anche a questo: a trasferire risorse a chi è in difficoltà. L’attuale bilancio dell’Unione non è fatto solo di sussidi? E la Grecia, l’Irlanda, la Spagna e il Portogallo non hanno beneficiato di aiuti comunitari ininterrottamente sin dal momento della loro adesione?
La cosa urgente da fare è trovare un meccanismo di governance – federale o meno – che sdrammatizzi il problema degli aiuti ai paesi dell’eurozona in difficoltà. Trasferimenti di risorse avvengono di continuo tra gli stati americani, ma nessuno vi presta particolare attenzione perché è pura routine fiscale. Non avvengono, per loro fortuna, attraverso vertici dei governatori degli stati – magari vertici d’emergenza decisi all’ultimo momento – con tutti i riflettori del mondo puntati sopra.
La politica di coesione si è svolta per anni in Europa attraverso i normali meccanismi di bilancio dell’Unione – che attirano l’attenzione di qualche sparuto chierico comunitario solo una volta ogni 5-7 anni al momento della definizione delle prospettive finanziarie. In altre parole la polemica tra contribuenti e beneficiari netti del bilancio comunitario è rimasta largamente confinata tra gli addetti ai lavori e per lo più ignorata dal pubblico – almeno quello che non si ciba delle fandonie propalate dai tabloid britannici.
L’eurozona nel suo insieme gode di buona salute: ha un debito pubblico alla sua portata, conti con l’estero in sostanziale equilibrio, una discreta crescita, un reddito meglio distribuito che altrove. Il suo vero, grosso problema è che non è un insieme. Il salvataggio di Grecia, Portogallo e Irlanda costa quattro soldi sulla scala delle risorse europee. Nessun tedesco o finlandese o austriaco potrebbe realisticamente nemmeno farci caso se non fossimo ancora così pietosamente disuniti da affidare ad altisonanti “vertici di capi di stato e di governo” la routine fiscale.
È questo il vero buco da colmare e bisogna ringraziare i mercati che non si stancano di ricordarcelo.