La Cina di Matteo Ricci, una storia che insegna a interpretare il presente

La Cina è un puzzle di informazioni e segnali di difficile composizione. Lo sguardo occidentale è spesso filtrato attraverso un binocolo con due lenti strabiche: da una parte quella della democrazia e dei diritti umani, dall’altra quella puramente economica. Ma la sintesi necessaria alla comprensione deriva da una più profonda conoscenza dell’identità del paese. Da questo punto di vista la storia di Matteo Ricci, il saggio dell’occidente come fu definito dai cinesi, che conquistò nel 1600 il cuore dell’impero Ming, è ancora istruttiva.

L’epoca Ming, periodo in cui Matteo Ricci visita la Cina, è infatti come oggi un’era di massimo splendore economico. L’impero detiene un esercito di un milione di uomini, la già sofisticata architettura istituzionale viene ulteriormente raffinata con un sistema piramidale che dalla capitale si irraggia su tutte le province, vengono compiuti grandi lavori infrastrutturali tra i quali il restauro del Canale Imperiale, la creazione della Città proibita e la Grande Muraglia. Ma è anche un periodo di splendido isolamento in cui la concessione commerciale di Macao, pur aperta ai traffici commerciali, è chiusa da un muro che impedisce l’accesso degli stranieri alla Cina continentale. Pur prendendo parte a quello che viene definito il “Columbian Exchange” ovvero, il primo commercio globale di merci, piante, animali, la Cina rimane essenzialmente poco incline ad accettare influenze straniere.

Matteo Ricci varca la porta di Macao nel 1583 e inizia un viaggio che per oltre vent’anni lo porterà a Pechino, nella Città proibita, simbolo inarrivabile del potere imperiale.

È un viaggio nel quale Matteo Ricci compie un processo di trasformazione, quasi di adattamento: prima dismettendo gli abiti talari, poi assumendo quelli del bonzo buddista, infine quelli del letterato. A questo punto Ricci ha letto e tradotto i principali libri, compreso Confucio e Aristotele in mandarino. In quel periodo in Cina è in corso una profonda rilettura di Confucio (Wang Yangming) e la disponibilità di una traduzione a Roma e nelle capitali europee consente all’occidente la scoperta di una cultura quasi sconosciuta.

E proprio Confucio, con le sue riletture, è un altro importante punto di contatto tra la storia e il presente. I lettori di Aspenia ricorderanno il recente volume di dedicato alla Cina, che reca giustamente il sottotitolo “il modello confuciano alla prova”, dimostrazione che le più recenti letture del sistema cinese passano attraverso il filtro della filosofia e della storia di questo paese.
(Vedi “la Cina post-americanaconversazione di Marta Dassù con Gianni De Michelis e “I Fondi Sovrani del Paese di Mezzo” di Alberto Quadrio Curzio e Valeria Miceli, in Aspenia n.50, 2010).

La corrispondenza di Matteo Ricci ancora oggi offre un’interessante lettura della Cina dei Ming. Parlando fluentemente il mandarino, scambiando tecnologia (orologi meccanici, prospettiva e cartografia), diventa Xitai “l’uomo strano” che conquista l’amicizia dei più importanti intellettuali cinesi dell’epoca. Il superamento delle diffidenze dell’impero Ming allora chiuso ermeticamente alle influenze straniere insegna che il dialogo nasce da una profonda conoscenza della sensibilità di questo complesso paese.

Oggi, dal punto di vista politico, molti sono i punti che mettono in questione “lo strabismo occidentale”. In un recente articolo sul New York Times, Eric Li contesta le convinzioni occidentali (“Counterpoint: Debunking Myths About China”, 18 luglio 2011). Eric Li confuta la tesi mainstream occidentale sulla mancanza di democrazia nel suo paese (Perché allora l’80% dei cinesi è soddisfatta dai progressi del proprio paese?), nega che la Cina sia un paese autoritario (falso dice Li perché il Partito Comunista attrae i giovani migliori e il ricambio è garantito dalla meritocrazia e competizione interna). Le assunzioni del venture capitalist Eric Li sono la prova che il sistema cinese impone, comunque, una sofisticata analisi intellettuale.

Ieri come oggi l’idea della Cina come grande mercato facile da conquistare è infatti un luogo comune, che viaggia con la scarsa conoscenza. Oggi il 78% delle intraprese commerciali e produttive italiane in Cina non hanno buon fine. La riprova che l’approccio a questo paese necessita di un’accurata analisi e soprattutto una continua riattualizzazione degli assunti di partenza.

Per lavorare in Cina e con i cinesi bisogna dunque disporre di un notevole armamentario, anche culturale, di sensibilità di modi. Il messaggio di Matteo Ricci è che la Cina non può essere né il campo di gioco dove applicare metodi e concezioni occidentali, né un mercato di facile seduzione. La storia di Matteo Ricci rappresenta ancora oggi la complessità dei rapporti tra Occidente e Oriente.

È per questo che assume un valore particolare il Memorandum of Understanding fra RAI e il colosso televisivo cinese CCTV, siglato il 19 luglio scorso a Pechino, alla presenza del ministro degli Esteri Franco Frattini e del suo omologo cinese Yang Jiechi. L’obiettivo è la produzione di un documentario che partendo da Matteo Ricci indaghi sulle storie di persone e imprese tra i due paesi.

La competizione con altri paesi presenti sulla scena cinese è intensa. In questi anni si sta formando l’imprinting culturale della classe media cinese. È cruciale che l’Italia giochi il suo ruolo anche attraverso la comunicazione. In un paese in cui le immagini e i simboli hanno un’enorme importanza, la presenza italiana nella televisione cinese dunque è fondamentale.

“La Cina Vicina di Matteo Ricci” è una produzione RAI- RAIWORLD, CCTV Documentary Channel.
Con il sostegno dell’ambasciatore d’Italia a Pechino, Massimo Iannucci; dell’AD di RAI World, Claudio Cappon; del membro del CdA di RAI World, Antonio Bettanini; del presidente della Regione Marche, Gianmario Spacca; e con il contributo di: Regione Marche, Ministero degli Affari Esteri, Ministero dello Sviluppo – Invitalia.

“La Cina Vicina di Matteo Ricci” è diretto da Duilio Giammaria.

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