La caduta di Obama e del suo partito in tutti gli indicatori d’opinione sull’operato del governo, lo stato del paese e le indicazioni di voto è ormai profonda e consolidata. Qualcosa potrebbe cambiare nelle ultime settimane di campagna elettorale, ma probabilmente solo ai margini. Ci si attende quindi una drastica riduzione della rappresentanza democratica in Congresso.
In una certa misura questa flessione non deve stupire. Ogni presidenza soffre le prime elezioni di mid-term, ed è ovvio che in condizioni economiche molto difficili la caduta sia ben più grave. Con la disoccupazione che sfiora da tempo il 10%, l’indebitamento di molte famiglie ancora ben lungi dall’essere riassorbito e una persistente incertezza sulle prospettive di ripresa, chi governa viene punito alle urne. Successe a Franklin D. Roosevelt come a Ronald Reagan.
Nel caso di Obama, però, pesano anche altri fattori, con un effetto cumulativo. Il presidente nero con un nome esotico e una biografia inusuale attira sfiducia, e spesso disprezzo, in fasce della popolazione animate da un populismo xenofobo in forte crescita. Se quasi un quarto degli americani lo crede islamico o non genuinamente americano, ciò significa che le ossessioni paranoiche hanno abbondantemente travalicato i normali confini delle frange più alienate. Del resto i media conservatori e gli stessi repubblicani hanno amplificato queste leggende con un cinismo che supera ogni precedente pratica di delegittimazione.
Obama sconta anche il fatto che la crisi ha svalutato tutte le politiche che non riguardano direttamente l’economia. Il ritiro dall’Iraq era stato una sua carta vincente nel 2008. Ma l’elettorato lo ha rapidamente metabolizzato e ormai non vi non presta quasi più attenzione. E la riforma sanitaria ha finito per apparire a molti una distrazione, o peggio un’ulteriore fardello, rispetto alle necessità di ripresa. La realizzazione delle sue promesse elettorali ed i suoi principali, rilevanti successi politici non stanno cioè pagando in termini elettorali e d’opinione. Anzi.
E poi sui democratici si rovescia la complicazione di un elettorato e di un partito così ampiamente compositi da risultare centrifughi. Nell’entusiasmo del 2008 sul “fenomeno” Obama si perse di vista il fatto che venne votato da persone diverse con aspettative apertamente contrastanti. La sinistra del suo elettorato chiedeva il ritiro dalle guerre di Bush e una svolta profonda rispetto alle dottrine economiche del mercato. Ora è perciò frustrata dalle scelte sull’Afghanistan e delusa da riforme, come quella sanitaria, che ritiene blande e incomplete. Gli elettori indipendenti centristi, viceversa, desideravano una nuova leadership più che un drastico cambiamento di rotta, ed ora sono soprattutto preoccupati del peso fiscale che l’indebitamento pubblico potrà scaricare sul loro futuro. Soddisfare entrambi sarebbe probabilmente risultato difficile in ogni circostanza, ma nel prolungarsi della crisi è divenuto impossibile. L’effetto combinato è che i secondi hanno perso fiducia, mentre i primi non sono più mobilitati dall’entusiasmo del 2008. E il partito è apertamente sulla difensiva. Molti parlamentari si distanziano dalla presidenza e cercano di ricostruirsi un’immagine di rigore fiscale per non farsi travolgere da elettori simultaneamente preoccupati della stagnazione e del deficit pubblico, e genericamente ostili al governo.
Sarebbe stata possibile una gestione politicamente più efficace ? Non sono un economista e non saprei dire se uno stimolo più ampio, anche a prezzo di un deficit temporaneamente più alto, avrebbe alimentato – come sostiene Paul Krugman – una ripresa rapida, robusta e quindi risolutiva. Quel che sembra indubbio, tuttavia, è che si aperta una disgiunzione profonda tra gli effetti materiali e quelli politici della politica economica di Obama. È evidente infatti che lo stimolo ha moderato la caduta delle attività economiche, il sistema finanziario è stato salvato dal collasso, le aziende automobilistiche rimesse in carreggiata. Ma invece del plauso per tutto questo, Obama riceve la critica – ormai diffusa se non assiomatica nel discorso pubblico – per l’accrescimento del deficit, la debolezza della ripresa e la persistente incertezza. Persino il fatto che gran parte del deficit federale derivi dalle politiche degli anni precedenti, dal costo delle guerre sommato alla più radicale riduzione delle tasse per i ceti più ricchi, ha cessato di influenzare gli elettori e di operare quindi a favore dei democratici. Insomma, la crisi che sembrava di Bush e dei repubblicani – in termini tanto fattuali che dottrinali – è divenuta a pieno titolo la sua crisi, la crisi che Obama non riesce a dominare e superare.
Volendo ragionare per analogie storiche, la carenza politicamente cruciale dell’amministrazione Obama risiede nella sua incapacità di costruire (e usare, anche spregiudicatamente) una narrazione convincente della crisi e degli orizzonti futuri. Le politiche di Kennedy, ad esempio, furono incerte e criticabili, ma la sua capacità di plasmare il discorso pubblico ne sancì il successo, politico prima e mitologico poi. Al contrario Carter imparò dalle molteplici crisi che si trovò ad affrontare, impostò politiche che pochi anni dopo sarebbero divenute la base di un forte consenso nazionale, eppure cadde vittima – fino al punto di incarnare il fallimento presidenziale per antonomasia – delle sue oscillanti incertezze nella comunicazione pubblica.
Obama ha passato il suo primo anno a predicare un’unificazione nazionale che non trovava rispondenza nella polarizzazione del sistema politico, di parti cruciali dell’elettorato e, ancora più macroscopicamente, del sistema dei media. Ha cercato un consenso bipartitico che i repubblicani non erano minimamente disposti a offrire. Ha corteggiato una business community che voleva i soldi del governo federale ma non intendeva affatto rinunciare (ad eccezione dei casi estremi, come l’automobile) alla libertà d’azione e ai privilegi acquisiti nei decenni precedenti.
Per inseguire questi obbiettivi magari nobili e ragionevoli, ma sostanzialmente irrealistici, una volta chiusa la campagna elettorale Obama ha sacrificato il suo maggior patrimonio politico e retorico: la possibilità di attribuire le asprezze, i sacrifici e le incertezze della crisi là dove effettivamente appartenevano. Ovvero alla cultura liberista (mercatista nel neo-gergo italiano) del conservatorismo repubblicano, anti-statalista e unilateralmente pro-business, che aveva egemonizzato le scelte strategiche degli ultimi trent’anni.
Non è affatto detto che il centro dell’elettorato americano avrebbe sposato un rilancio sistematico del ruolo economico del governo federale (che non era, peraltro, esattamente ciò che Obama cercava). Le interpretazioni del 2008 come un mandato in tal senso sono risultate palesemente sballate. Ma Obama si è privato del mandato che il 2008 gli aveva effettivamente assegnato, quello di archiviare una cultura politica che, ancora oggi, non ritiene legittima alcuna misura di politica economica che non sia la riduzione fiscale regressiva permanente.
Nel momento in cui poteva mettere fuori gioco le idee degli avversari, dotandosi quindi di un maggior spazio d’azione, e di una più duratura e paziente fiducia pubblica, Obama ha invece tentato di ricucire e congiungere ciò che non poteva effettivamente stare insieme. Così che ad appena due anni dal suo trionfo, non è la sua voce presidenziale a delineare i confini della discussione pubblica – come avvenne, in maniera esemplare, con Reagan. La conversazione della nazione è invece segnata dalla stridula xenofobia del Tea-Party, da un partito repubblicano insperabilmente rilegittimato a riproporre le sue esauste ricette divisive e, soprattutto, dal silenzio smarrito e inquieto di segmenti decisivi dell’elettorato americano, che si ritrova tra le mani, come unico strumento per spiegarsi difficoltà e sofferenze, solo la stantia, impotente ed inutile frustrazione verso “la politica di Washington”.