Intervista a Amr Amzawy

Amr Amzawy è stato eletto alla Camera bassa del Parlamento egiziano, candidandosi al primo turno come indipendente. Ex direttore della sede libanese del centro di ricerca Carnegie Endowment for International Peace, nel corso della rivolta egiziana scoppiata il 25 gennaio Amzawy è stato un membro del consiglio dei saggi  formato per negoziare tra manifestanti e governo.

 “Ogni momento di cambiamento, globale o locale, ha dei costi e dei rischi. Ora il sistema internazionale sta affrontando una crisi che impone di rivedere il modello economico utilizzato negli ultimi decenni. Al contempo, sulla sponda meridionale del Mediterraneo, i paesi attraversati dalla primavera araba stano cercando di liberarsi definitivamente da quei meccanismi che hanno costretto per decenni i cittadini a vivere in uno stato di sudditanza. Come è successo in altri paesi del mondo ci sono rischi da correre, ma non abbiamo altra scelta” dice Amzawy.

La crisi globale sta mettendo a dura prova le economie occidentali. Per decenni, alcuni di questi stati hanno sostenuto regimi autoritari che nella primavera araba hanno iniziato a trasformarsi. Cosa possiamo aspettarci in questa congiuntura storica, tra cambiamenti economici e politici?

Le potenze occidentali non stanno crollando, stanno vivendo un momento di crisi dal quale devono essere capaci di uscire per riprendere a vivere con gli standard di prima. I cittadini di alcuni paesi arabi che si sono ribellati perché i regimi da cui erano governati non erano in grado di garantire loro alcuna sicurezza sociale e non sapevano dare risposta alle loro richieste economiche. Inoltre, questi regimi non sono stati in grado di diffondere giustizia sociale mentre  la corruzione minava tutte le istituzioni. Le potenze occidentali dovrebbero ora guardare criticamente a quello che hanno fatto in passato per rivedere la loro condotta. Non dovrebbero sostenere esclusivamente quegli attori che garantiscono i loro interessi, nè appoggiare quei soggetti che si presentano come i garanti dell’ordine e della stabilità – servendosi anche della forza, come ci ricorda quanto accaduto il Egitto a metà dicembre. Infine, le potenze occidentali dovrebbero rivedere la loro politica nei confronti di Israele, non offrendo più un appoggio indiscriminato allo stato ebraico.

Storicamente, che ruolo ha giocato l’Islam nei momenti di trasformazione che hanno attraversato i paesi della regione e che ruolo può giocare adesso?

Il ruolo dell’Islam è stato molto diverso da paese a paese. Basta pensare al periodo della lotta contro le potenze coloniali. Non sempre il pensiero islamico è stato centrale nella lotta di indipendenza. In Egitto, per esempio, sono state soprattutto istanze nazionaliste a condurre la lotta contro l’interferenza straniera.  Quello che stiamo vedendo in questi mesi con le elezioni in Tunisia, Marocco ed Egitto non è un’ascesa dell’Islam come pensiero o come religione, ma il successo di movimenti dell’Islam politico che hanno deciso di partecipare attivamente alla vita politica.  Questi partiti però non rappresentano l’Islam in quanto tale, che resta una religione ed è rappresentata da istituzioni religiose come Al-Azhar (l’Università del Cairo ritenuta il massimo centro di istruzione dell’Islam sannita; ndr). Queste istituzioni non si sono schierate, non hanno detto ai fedeli per chi votare e non possiamo quindi dire che l’Islam in sé stia giocando un ruolo da protagonista. Non tutti i musulmani si riconoscono nei partiti islamisti e molti si sentono più vicini ad altri movimenti che, pur non rinnegando la religione, le danno un peso molto diverso nelle dinamiche politiche. Non bisogna poi pensare che i risultati di queste votazioni siano destinati a ripetersi nelle prossime consultazioni. E’ possibile che i liberali riescano con il tempo ad organizzarsi per sottrarre voti importanti agli islamisti e  diventare più influenti.

Quale sistema politico ed economico è meglio in grado di rispondere alle esigenze delle società attuali?

I cittadini chiedono giustizia sociale, e gli stati chiedono lo stesso nel contesto internazionale rispetto alle maggiori potenze economiche. Il sistema capitalista é andato in crisi perché non è riuscito a dare risposte soddisfacenti alle domande dei cittadini, ma non per questo è destinato a sparire e ad essere rimpiazzato con un modello nuovo di zecca. Viviamo in un mondo globale fatto di interconnessioni che si basano su un’economia di mercato che difficilmente potrà scomparire. Bisogna fare sforzi congiunti per modificare il sistema esistente, cominciando dalle istituzioni che governano le relazioni internazionali, e dunque dalla riforma del sistema delle Nazioni Unite.  A livello interno ai singoli paesi, soprattutto quelli in transizione, è importante trovare meccanismi che spingano i cittadini a partecipare sempre di più alla vita politica del proprio paese: limitarsi a votare ogni quattro o cinque anni non è più sufficiente e servono altre occasioni di coinvolgimento. Solo una partecipazione quotidiana renderà i cittadini dei veri protagonisti responsabili.

I paesi attraversati dalla “primavera araba” rischiano di scivolare in una deriva populista?

Di rischi ce ne sono molti, e per questo è importante che i cittadini non si accontentino di quanto hanno finora ottenuto. Servirà tempo, e non esiste un modello preciso a cui ispirarsi: di certo gli arabi non guardano all’Iran come paese da emulare, e preferiscono piuttosto la Turchia. Ma si devono trarre lezioni anche da altre esperienze, come quelle dei paesi dell’America Latina e dell’Europa Orientale che negli scorsi decenni si sono liberati dei loro dittatori. I rischi di una deriva populista esistono, perché esistono istituzioni e forze che non vogliono portare a termine quanto è iniziato nel 2011. Il ruolo che i militari giocheranno nel futuro dell’Egitto, in particolare, dipende in buona parte dall’abilità della classe politica che andrà al governo ora: se sarà in grado di creare un certo consenso allora sarà possibile spingere i militari nelle caserme. E’ un momento molto delicato, ed è importante che anche la comunità internazionale comprenda la complessità della transizione nel decidere chi sostenere.

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