Immigrati o rifugiati? Washington e l’emergenza umanitaria dei minori centroamericani

Relegato ai margini del dibattito politico statunitense dalla contrapposizione frontale tra il presidente Obama e i suoi oppositori in Congresso, il tema della riforma dell’immigrazione è tornato al centro dell’attenzione.  La causa immediata è una “emergenza”: l’afflusso di decine di migliaia di giovani e giovanissimi centroamericani, privi di documenti e spesso non accompagnati dai loro genitori, attraverso il confine con il Messico.

I dati della US Border Patrol delineano flussi quantitativamente e qualitativamente assai diversi rispetto al recente passato. Quasi 40mila minori non accompagnati sono stati bloccati dopo aver attraversato la frontiera con il Messico nel 2013, un incremento del 59% rispetto al 2012 e del 142% rispetto al 2011; per il 2014 si prevede un nuovo raddoppio degli arrivi. Circa il 75% di questi proviene da Honduras, El Salvador e Guatemala, paesi accomunati sia da alti livelli di povertà, sia da un vertiginoso aumento della violenza urbana, soprattutto giovanile (occupano rispettivamente il primo, il secondo e il quinto posto nella graduatoria mondiale degli omicidi pro-capite). A differenza dei minori di nazionalità messicana, che vengono immediatamente rimpatriati, coloro che provengono dagli altri Stati centro-americani vengono affidati a centri di custodia dell’Office of Refugee Resettlement, che fa capo al Department of Health and Human Services. Qui viene seguita la procedura che verifica il loro diritto allo status di rifugiato e la possibilità del ricongiungimento familiare con parenti già residenti negli Stati Uniti, secondo quanto prevede una legge del 2008 volta a combattere il traffico e lo sfruttamento sessuale dei minori.

All’inizio di giugno Obama ha chiesto al Congresso di approvare 1.4 miliardi di dollari di finanziamenti straordinari per fronteggiare quella che definì una “urgente crisi umanitaria”, assegnando un ruolo di primo piano alla Federal Emergency Management Agency (l’omologo statunitense della Protezione Civile). Intanto il Congresso è tornato a discutere di immigrazione senza molto costrutto, anzi confermando la sua incapacità di trovare soluzioni legislative condivise sui grandi nodi irrisolti dell’America contemporanea. Da un lato, la Casa Bianca continua a chiedere risorse per dotare le varie agenzie federali coinvolte dei mezzi necessari sia per il potenziamento dei tribunali, dell’assistenza legale ai minori e delle strutture di custodia, sia per il rafforzamento del pattugliamento dei confini e le espulsioni di coloro che non vengono riconosciuti come rifugiati. Dall’altro lato, l’opposizione repubblicana accusa Obama di aver incoraggiato questo afflusso con la sua proposta di riforma complessiva che prevedeva la possibilità, invero complessa e per nulla immediata, di conseguimento della cittadinanza; i Repubblicani si oppongono all’aumento della spesa federale per misure umanitarie che, si ritiene, finirebbero per diventare un magnete capace di attrarre altre decine di migliaia di irregolari. Così una nuova richiesta di 3.7 miliardi di dollari proveniente dalla Casa Bianca è al momento bloccata dal veto repubblicano. 

Finora la “crisi umanitaria” non solo non ha attenuato, ma ha semmai inasprito la polarizzazione che da mesi paralizza il Congresso. John McCain, senatore dell’Arizona che fu tra i leader repubblicani che avevano reso possibile una ipotesi bipartisan di riforma generale in tema di immigrazione poi naufragata alla Camera per l’opposizione della destra del partito, è ora schierato in prima linea contro le proposte della Casa Bianca e dei Democratici. C’è chi vede in questo irrigidimento il riflesso delle tensioni interne al Grand Old Party, riesplose in occasione delle primarie per le elezioni di medio termine del prossimo novembre. L’evento chiave è stato la recente, scioccante sconfitta in Virginia di Eric Cantor, capogruppo repubblicano alla Camera, ad opera di un semi-sconosciuto candidato del Tea Party, David Brat, questi ha sistematicamente accusato Cantor di essere disponibile al compromesso, e in particolare alla sanatoria degli immigrati irregolari, nonostante il suo record di opposizione intransigente all’agenda dell’attuale inquilino della Casa Bianca. L’episodio conferma due tendenze in atto da tempo. In primo luogo il dibattito attorno all’immigrazione appare, anche negli Stati Uniti, un terreno particolarmente propizio all’evocazione di spettri identitari e impervio a una valutazione “laica” dei costi e dei benefici di determinate politiche. In secondo luogo il sistema elettorale nel suo attuale, concreto funzionamento (a partire dalla delimitazione di collegi elettorali fortemente omogenei dal punto di vista socio-economico e etnico-razziale) assegna un forte potere di condizionamento a minoranze radicalizzate.

Pertanto è improbabile che l’attuale crisi si trasformi finalmente nell’opportunità per una riforma di ampio respiro delle leggi sull’immigrazione, considerate dalla maggioranza degli americani disfunzionali e obsolete, costringendo milioni di lavoratori e di famiglie irregolari a vivere nell’ombra. Un recente appello lanciato dalle colonne del New York Times da Sheldon Adelson, Warren Buffett e Bill Gates si scaglia contro l’inazione del Congresso e reclama l’urgenza di una riforma in sintonia con le esigenze di crescita dell’economia e coerente con i principi della repubblica. Tuttavia questa non può essere realizzata dal presidente a colpi di executive orders e difficilmente potrà prendere forma in Congresso se le elezioni di medio-termine indeboliranno ulteriormente, come sembra probabile, la sua iniziativa legislativa nell’ultimo biennio.

Infine, il dramma di decine di migliaia di ragazzi e bambini in fuga dalle città più pericolose del mondo agli stati sud-occidentali degli Stati Uniti suggerisce considerazioni che trascendono il dibattito attuale sulle politiche relative all’immigrazione. A livello interno va ricordato che la legge che tutela i minori provenienti dall’America centrale, di cui ora i Repubblicani chiedono l’abrogazione o quantomeno una sostanziale modifica come pre-condizione per erogare i fondi necessari a far fronte all’emergenza, fu uno degli ultimi atti dell’amministrazione di George W. Bush (e venne sostenuta con forza da organizzazioni evangeliche). Esiste in realtà una poco conosciuta ma solida tradizione riformatrice di marca conservatrice in questo ambito: nel 1986 una serie di misure promosse da Ronald Reagan rese possibile la regolarizzazione per tutti coloro che erano entrati irregolarmente nel paese prima del 1982. In tempi non lontani la destra americana ha saputo affrontare il tema in modo pragmatico e al contempo consono ai suoi valori di riferimento, e la polarizzazione attuale è piuttosto recente.

A livello internazionale la crisi ha nuovamente acceso i riflettori di Washington sull’America centrale (un’area finita in un cono d’ombra dopo gli anni ottanta), come dimostra la recente missione del vice-presidente Joe Biden nella regione. Azioni e omissioni degli Stati Uniti nell’area, dal sostegno dell’amministrazione Reagan alla giunta militare di El Salvador alla passività dell’amministrazione Obama di fronte al colpo di stato in Honduras del 2009, hanno contribuito secondo molti osservatori a creare le condizioni per l’attuale fuga di massa da quei paesi, per quanto sia problematico individuare una stretta correlazione tra gli eventi. Più evidente è il nesso tra i programmi di “guerra alla droga” sostenuti da Washington e il riorientamento dei flussi del narcotraffico internazionale, che ha fatto dell’Honduras la sua testa di ponte con conseguenze devastanti per la coesione sociale e i livelli di violenza di quel paese. Ed è noto che alcune delle gang che infestano quei paesi – Mara Salvatrucha, Calle 18 – sono nate nelle strade di Los Angeles e hanno poi attecchito altrove quando molti dei loro membri sono stati espulsi e rimandati nei paesi d’origine. Le partite decisive della politica estera americana si giocano altrove, ma la lunga e travagliata storia dei rapporti tra Stati Uniti e America centrale continua.

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