È il primo presidente della storia dell’Egitto contemporaneo che non indossa un’uniforme, che abbandona il linguaggio paternalista del suo predecessore e si rivolge al suo popolo piuttosto che a quelli che il vecchio dittatore chiamava “i suoi figli”. Classe 1959, Mohamed Morsi proviene dalla provincia di Sharqiya, dove è cresciuto nelle fila della Fratellanza Musulmana. Negli anni ‘80 ha ottenuto un dottorato in ingegneria in California, dove sono nati due dei suoi cinque figli. Considerato la ruota di scorta della Fratellanza che l’ha candidato solo dopo l’eliminazione dalla corsa del suo uomo di punta (il tycoon Khatir al Shaker), Morsi è stato più volte in carcere quando il suo movimento era ancora bandito. Correndo come indipendente, nel 2005 è stato eletto deputato, divenendo sempre più influente all’interno della Confraternita islamista. È stato membro del Consiglio Esecutivo del movimento, portavoce della Giuda Suprema e, nel giugno 2011, fondatore del partito di Libertà e Giustizia.
La notizia del successo di Morsi è stata accolta con gioia non solo da coloro hanno festeggiato una sorta di rivincita per un movimento costretto da decenni alla clandestinità, ma anche da quanti temevano che i militari avrebbero fatto di tutto per imporre il loro uomo – Ahmed Shafiq, il premier dell’ultimo governo di Hosni Mubarak che ha ottenuto il 48,3% dei voti.
Dopo lo scioglimento del Parlamento, gli emendamenti alla dichiarazione costituzionale transitoria, il parziale ritorno allo stato di emergenza e l’assunzione da parte dei militari di funzioni legislative, il Consiglio Supremo delle Forze armate (CSAF) non ha avuto il coraggio di imporre il suo uomo rischiando di doversi confrontare con un’altra ondata rivoluzionaria. Ancor prima di essere certa della sua vittoria, la Fratellanza ha infatti mobilitato la sua base, facendo arrivare nella piazza centrale del Cairo decine di migliaia di islamisti pronti a insorgere contro un’eventuale vittoria di Shafiq. A tornare in strada sono stati anche i salafiti, gli islamisti su posizioni più radicali, che hanno criticato lo scioglimento di quel Parlamento nel quale avevano il 25% dei seggi.
A impegnarsi per contenere la possibile escalation di violenza che sembrava alle porte (qualora fosse stata decretata la vittoria di Shafiq) è stato anche Mohammed El-Baradei, l’ex segretario generale dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica, che, dopo mesi di assenza alla scena politica, si è proposto di fare il mediatore tra Fratellanza ed esercito. Dopo due giorni di negoziati serrati e riservati, rese possibili dal posticipo dell’annuncio dei risultati, la Commissione Elettorale ha dichiarato Morsi presidente, scongiurando l’ennesima mossa che avrebbe completato il golpe militare già in corso.
A influenzare la decisione dei militari potrebbe essere stata non solo la pressione della piazza, ma anche quella esercitata dalla Casa Bianca. La Fratellanza coltiva da anni rapporti, più o meno ufficiali, con attori della scena politica statunitense; e alla vigilia del ballottaggio, il segretario di stato Hilary Clinton ha apertamente accusato i militari di rimangiarsi le promesse di trasferire i poteri a una giunta civile. L’interferenza della Casa Bianca non è piaciuta ai nazionalisti egiziani (né del resto alla destra statunitense che ha accusato il presidente di essere troppo filo-Fratellanza), ma è probabile che queste prese di posizione abbiano comunque influenzato le dinamiche al Cairo.
Un altro risultati importante della mediazione in corso tra islamisti e militari sembra essere arrivato quando, il 26 giugno, la Suprema Corte Amministrativa (SCA) egiziana ha annullato il decreto con il quale, alla vigilia del ballottaggio, il ministero della Giustizia aveva di fatto re-istituito la legge d’emergenza. La SCA non si è però pronunciata né sulla validità degli emendamenti apportati dai militari alla Dichiarazione Costituzionale transitoria, né sul futuro del Parlamento sciolto il 14 giugno. Rimandato al 4 settembre anche il verdetto sulla legittimità di quell’Assemblea Costituente nominata dalle Camere proprio poche ore prima del loro scioglimento.
Da parte sua, anche la Fratellanza appare disposta ad accettare alcuni compromessi. Secondo il quotidiano Al-Shouruq, agli islamisti dovrebbero andare non più di tre ministeri del nuovo governo: due al partito di Morsi e uno ai salafiti. La gestione della Difesa, degli Interni e della Giustizia dovrebbe andare all’esercito e i restanti ministeri a dei tecnici. Anche alla guida dell’esecutivo potrebbe non essere un’islamista, ma un liberale, forse El-Baradei. Il neo-eletto presidente ha infine annunciato, attraverso un portavoce, di volere due vice al suo fianco: una donna e un cristiano copto. Sarebbe la prima volta nella storia egiziana.
La vittoria di Morsi non vuol dire però che la democrazia abbia trionfato. Quello appena conclusosi é solo un passaggio di una complessa lotta per il cambiamento che andrà avanti per anni. I liberali che hanno votato il candidato della Fratellanza per scongiurare un ritorno al passato hanno già annunciato di essere all’opposizione e molte organizzazioni che tutelano i diritti umani si sono dette molto preoccupate per una possibile deriva islamica.
Nei prossimi mesi l’Egitto dovrà affrontare almeno due grandi questioni. La prima sarà quella per la stesura della Costituzione. I militari hanno già mostrato di voler mantenere il massimo controllo su questo processo e potrebbero anche arrivare a nominare i membri dell’Assemblea costituente e ad arrogarsi il potere di veto sui singoli articoli. Una volta risolta questa questione, ci sarà poi la battaglia per la creazione del nuovo Parlamento. Gli islamisti faranno il possibile per ripetere il successo dello scorso novembre, quando hanno ottenuto il 70% dei seggi. I liberali cercheranno però di sfruttare al massimo questi mesi per arrivare meglio organizzati all’appuntamento.
Infine, non è da escludere un terzo passaggio delicato: dopo la stesura della Costituzione sarebbe plausibile ripetere anche le elezioni presidenziali, e a quel punto Morsi potrebbe diventare il presidente dal mandato più breve della storia egiziana.