La Cina accetterebbe la riunificazione della Corea se gli Stati Uniti ritirassero i loro soldati? Lo chiedo a un giovane professore cinese di relazioni internazionali. Sono da qualche giorno a Pechino, in cerca di colleghi interessati a discutere il problema dei problemi, per la Cina e per la sicurezza internazionale: che fare con la Corea del Nord? È un nodo di politica interna, oltre che estera. Secondo un rapporto appena pubblicato dal SIPRI di Stoccolma[1], la leadership cinese è divisa, sulla questione coreana. Il giovane professore soppesa solo un attimo la mia domanda e poi mi risponde: sì. Sì, la Cina accetterebbe.
Non c’era bisogno dello spionaggio informatico di Wikileaks per rendersi conto di una tendenza precisa: il dibattito sulle condizioni della riunificazione della Corea è ormai in corso a Pechino. Per certi versi, mi ricorda il dibattito del 1989 sulla riunificazione tedesca. Anche allora, c’era chi sosteneva che una Germania unita non avrebbe potuto fare parte della NATO. La neutralità o quasi della grande Germania era la posizione sostenuta da Mosca, naturalmente. Ma era anche la posizione di una parte degli europei, di fatto ostili alla rinascita tedesca nel cuore del vecchio continente. Non Wikileaks ma il normale processo di pubblicazione dei documenti diplomatici, ha poi confermato queste esitazioni. Il vero appoggio a una Germania unita nella NATO è stato americano. Gli europei, come sappiamo, hanno cercato di mettere i bastoni fra le ruote. In modo rude la Signora Thatcher; in modo più ambiguo la Francia di Mitterrand. E in modo sottile, ma non troppo, l’Italia: “amiamo talmente la Germania che preferiamo averne due”, secondo la famosa battuta di Giulio Andreotti.
Per parecchi decenni, dall’armistizio del 1953 fino a oggi, Pechino ha applicato la massima di Giulio Andreotti, preferendo lo status quo nella penisola coreana. Dal punto di vista della Cina, infatti, una Grande Corea in Asia orientale rafforzerebbe una potenza rivale e alleata degli Stati Uniti, portando le truppe americane alle frontiere cinesi. Pechino non ha nessuna voglia di perdere, con mezzo secolo di ritardo, la guerra fredda asiatica. Comincia a temere le mosse irrazionali del regime di Pyongyang – una dinastia alla fame, sorretta da militari con ambizioni nucleari – ma non ritiene di potere pagare, per liberarsene, un prezzo così alto. Alterare questo calcolo costi/benefici è il problema principale.
Rispetto al precedente europeo del 1989, esistono due differenze importanti. La prima, ovvia ma decisiva, è che mentre l’URSS era in condizioni di estrema debolezza, la Cina di oggi non lo è, anzi appare come la potenza regionale in ascesa. Di conseguenza, mentre la riunificazione tedesca alle condizioni occidentali poteva essere imposta a Mosca (e di fatto lo fu), la riunificazione coreana alle condizioni americane non può essere imposta a Pechino. Un accordo, o un compromesso, è indispensabile. La seconda differenza è connessa alle condizioni del paese: difficile pensare, in Corea, a una implosione pacifica del regime, trainata, come nel caso dell’affondamento di Honecker (l’ultimo leader comunista della DDR), dalla spinta della popolazione. E resa possibile, nella sua forma pacifica, dal via libera rassegnato di Mosca. Al contrario, solo una pressione attiva della Cina potrà spingere verso un cambiamento a Pyongyang; e solo un accordo fra Pechino, Washington e i principali attori asiatici, potrà controllarne le conseguenze. Conseguenze quanto mai complicate da gestire: costi enormi, anzitutto per la Corea del Sud; flussi di rifugiati (verso le frontiere cinesi); impatto diretto sulla sicurezza asiatica.
Dire che un accordo è necessario, non significa insomma che si tratti di un accordo semplice da concepire. Non lo è, come dimostrano alcune domande iniziali. Quali sarebbero i vantaggi di Seul, se la Corea del Sud si trovasse addosso di colpo forti oneri economici e vedesse intanto ridursi la garanzia militare americana? Quali condizioni sono accettabili per Washington, che deve comunque salvaguardare la credibilità delle proprie alleanze asiatiche? E se, come risultato di un’intesa con Pechino sulla Corea, la garanzia americana fosse ritenuta meno solida, quali scelte faranno paesi come il Giappone?
L’Europa è apparentemente fuori dalla partita. Non fa parte dei negoziati a sei sulla questione nucleare coreana. Non ha un ruolo diretto nella sicurezza asiatica. Ma ha vissuto i benefici e i costi della riunificazione tedesca. E ci sono casi in cui la distanza permette maggiore equilibrio.
Fra Cina e Stati Uniti, un’Europa senza forza potrebbe avere almeno la forza delle idee.
[1] Linda Jakobson e Dean Knox, New Foreign Policy Actors in China, SIPRI, Stockholm International Peace Research Institute, settembre 2010.