L’ultima settimana di marzo si preannuncia di grande importanza per la politica spagnola. Nel giro di pochi giorni, dalla domenica 25 al venerdì 30, tre eventi misureranno il grado di consenso intorno ai primi mesi di azione del Governo di Mariano Rajoy e chiariranno definitivamente il suo indirizzo in merito alla politica di bilancio. Si comincerà con le elezioni regionali in Andalusia e nelle Asturie, poi toccherà allo sciopero generale di giovedì 29 convocato dai sindacati contro le nuove norme sul mercato del lavoro, e infine sarà il turno della presentazione della legge finanziaria per il 2012.
Un calendario fitto e già controverso: l’opposizione accusa l’esecutivo di voler “svelare” le misure di austerità a urne chiuse, per non pregiudicare le possibilità di vittoria del Partido popular (Pp) nelle Comunità autonome al voto; anche la Commissione europea non fa mistero del fatto che preferirebbe conoscerle il prima possibile. E’ chiaro che il Partito socialista (Psoe) vorrebbe poter utilizzare nella campagna elettorale i prevedibili tagli allo spesa pubblica, ergendosi a difensore dello stato sociale.
Per parte loro, le autorità comunitarie temono che la Spagna possa trasformarsi in quello che i tedeschi chiamano «Sorgenkind», la nuova fonte di preoccupazione dopo la Grecia. In effetti, è un’inquietudine non immotivata: il quadro economico è senza dubbio poco rassicurante. Il Paese iberico è ufficialmente in recessione (la caduta del Pil per l’anno in corso sarà dell’1,5%, secondo le previsioni più ottimistiche); la disoccupazione raggiunge cifre molto elevate (nel primo trimestre supererà il 23% della popolazione attiva); il deficit è dell’8,5% in rapporto al Pil, lontanissimo dal fatidico 3% previsto dalle regole europee. Nel 2012 il disavanzo dovrà scendere al 5,3%: un obiettivo difficile, ma comunque più alla portata del 4,4% che aveva pattuito con Bruxelles il Governo precedente. Rajoy puntava a beneficiare di un “ammorbidimento” ulteriore della posizione dei soci comunitari, che gli consentisse di fissare il deficit al 5,8%. Una cifra che il premier spagnolo aveva annunciato alla stampa, ma non ai suoi colleghi, dopo l’ultimo Consiglio europeo. Una «decisione sovrana della Spagna», secondo le parole dello stesso Rajoy; ma questa posizione non ha superato il vaglio dell’Eurogruppo, che ha imposto all’esecutivo iberico il definitivo 5,3%.
Legittimo sospettare che, fin dall’inizio, il Governo volesse intavolare una sorta di trattativa tanto con i partner comunitari quanto con la Commissione, sapendo di poter contare sulla disposizione favorevole della maggioranza dei Governi europei politicamente affini. Rajoy – persona solitamente prudente – ha probabilmente ecceduto nei proclami, danneggiando la causa che stava difendendo: sbandierare la definizione dell’obiettivo deficit/Pil come «decisione sovrana della Spagna» è risultata non solo un’ingenuità, ma una sorta di provocazione, che ha irritato le altre cancellerie.
Nonostante l’incertezza che ancora avvolge la prossima legge finanziaria, non è un mistero per nessuno che conterrà misure di grande impatto. Allo Stato, nel suo complesso, servono 35 miliardi di euro, da ricavare attraverso risparmi o nuove tasse. Le Comunità autonome sono chiamate a fare la loro parte e numerosi segnali indicano che a loro spetterà l’introduzione di una sorta di ticket sanitario, su impulso del Governo centrale.
La Catalogna ha aperto la strada, varando una norma che imporrà, d’ora in avanti, il pagamento di un euro addizionale per ogni ricetta farmaceutica. Un fatto politicamente significativo, dal momento che la legge è stata approvata con i voti del Pp, ormai diventato de facto alleato dei nazionalisti catalani di Convèrgencia i Unió (CiU), alla guida di un esecutivo di minoranza nella Generalitat. Un rapporto apparentemente «contro-natura», quello fra populares e convergentes, se si considerano le notevoli differenze che li separano in relazione alle questioni dell’assetto istituzionale dello Stato delle autonomie, con annesso il carico emotivo delle controversie identitarie fra catalanismo e spagnolismo. Se si guarda però alla politica economico-sociale, il mistero del connubio è presto svelato: Pp e CiU condividono un’analoga filosofia liberista, che porta entrambi a sostenere l’esigenza del dimagrimento del settore pubblico e della flessibilizzazione del mercato del lavoro. Ed è proprio su quest’ultimo terreno che i nazionalisti catalani restituiscono il favore al partito di Rajoy, sostenendo nelle Cortes di Madrid le misure proposte dal Governo centrale. Un appoggio che i numeri renderebbero superfluo (il Pp ha la maggioranza assoluta), ma che la politica rende molto utile, per evitare che l’esecutivo dimostri di essere «isolato» nel sostenere la cosiddetta reforma laboral. E’ infatti un provvedimento che ha suscitato forti reazioni di protesta nelle opposizioni di sinistra e nel movimento sindacale, che si sta preparando al primo sciopero generale dell’era-Rajoy.
La protesta del prossimo 29 marzo era certamente messa in conto (lo stesso premier si era lasciato sfuggire settimane addietro una confidenza a microfono aperto, dicendosi sicuro che le misure sul mercato del lavoro gli sarebbero costate uno sciopero): ciò non significa che il Governo sia indifferente a un inasprirsi del clima sociale, che rischia di indebolire il messaggio di stabilità e fiducia da trasmettere oltre i confini. Per altro verso, l’esecutivo vuole mostrarsi inflessibile di fronte alle richieste delle organizzazioni dei lavoratori, per riuscire a capitalizzare in sede comunitaria l’immagine di Governo «forte», in grado di condurre in porto le «riforme necessarie» ancorché «impopolari».
C’è quindi una sorta di dilemma, che Rajoy dovrà sciogliere: o privilegiare la pace sociale utile a recuperare fiducia, o esibire determinazione, ignorando le proteste di piazza, per rafforzare la propria leadership nel consesso europeo. La scelta sarà certamente influenzata dal risultato delle elezioni regionali. Se il Pp – come sembra – conquisterà l’Andalusia (la Comunità autonoma più popolosa), il premier potrà dormire sonni tranquilli e avrà sempre gioco facile nel contrapporre alla protesta di piazza la legittimazione delle urne.
L’eventuale sconfitta, invece, suonerebbe come una sorpresa negativa, visto il netto vantaggio che i sondaggi attribuiscono tuttora ai conservatori nei confronti dei socialisti. Questi ultimi giungono infatti all’appuntamento elettorale molto indeboliti: subiscono ancora l’effetto negativo dell’infelice conclusione del ciclo di Zapatero e, nello specifico del caso andaluso, portano con sé le tossine (soprattutto gli scandali di corruzione) di trent’anni di ininterrotto governo. I primi segni di malcontento verso la politica di Rajoy non sembrano ancora, allo stato attuale, tradursi in voti per il Psoe all’opposizione.