Jeb Bush non deve aver preso bene i risultati del sondaggio condotto recentemente da Fox News sul gradimento dei candidati repubblicani, dichiarati o in procinto di ufficializzare la candidatura. Soltanto il 9% degli elettori repubblicani intervistati vorrebbe Bush alla Casa Bianca, la stessa percentuale ottenuta da Mike Huckabee, candidato della destra religiosa noto essenzialmente per un breve exploit in Iowa alle primarie del 2008 e per avere l’appoggio permanente dell’attore Chuck Norris. Primo nel sondaggio è il Senatore della Florida Marco Rubio, seguito a ruota dal Governatore del Wisconsin Scott Walker e dal Libertario Rand Paul, Senatore del Kentucky e figlio dell’ex-aspirante presidente Ron. Dietro a Bush, staccato di un solo punto, si piazza l’intransigente Senatore del Texas Ted Cruz.
Naturalmente il sondaggio non conta nulla ai fini pratici, ed è decisamente troppo presto perché possa fornire indicazioni significative, tuttavia Fox è sempre un termometro utile per saggiare la temperatura della destra americana. E quando l’intellettuale conservatore Charles Krauthammer dice che “Jeb Bush non può avere l’indice di gradimento a una sola cifra” se davvero vuole diventare presidente, sta semplicemente notando che nessuno dei candidati repubblicani del recente passato che ha poi ottenuto la nomination aveva numeri così scarsi, nemmeno diversi mesi prima dell’inizio delle primarie.
Questi dati sono la rappresentazione in scala di quello che sta succedendo nel Partito Repubblicano, contenitore di varie correnti in cerca di identità e che oscilla fra le urla del Tea Party e la moderazione dei reformicon, i conservatori riformisti che vorrebbero portare il GOP fuori dai rigidi canoni dell’ortodossia di Reagan. Il problema è tutto qui: aggrapparsi alla tradizione o esplorare nuovi territori?
La regola delle primarie, cui partecipano solo gli elettori più infervorati, impone solitamente ai candidati di spostarsi verso gli estremi ideologici del proprio partito per dimostrarsi sufficientemente “puri”; il sondaggio di Fox suggerisce un certo scetticismo della base repubblicana nei confronti di un politico, come Jeb Bush, giudicato troppo moderato e aperto al compromesso perché possa davvero galvanizzare gli istinti della destra, attraversata da un impeto anti-establishment. Per ragioni di cognome e status, Bush – istruito nelle università dell’élite e foraggiato dai soldi del petrolio – è la quintessenza dell’establishment repubblicano; al tempo stesso, si discosta politicamente dal canone del conservatorismo tradizionale.
In effetti, su immigrazione ed educazione l’ex Governatore della Florida sostiene idee potabili per i Democratici e addirittura propugna il Common Core, i programmi educativi standard che per la destra intransigente sono lo strumento con cui l’ideologia liberal farà il lavaggio del cervello all’intero Paese. Questa disponibilità al dialogo e al compromesso da parte di Bush ha aperto quindi nuovi spazi alla sua destra, ed è anche per questo che i tre che finora hanno messo nero su bianco il loro interesse per la Casa Bianca sono rappresentanti dell’ala più dura del partito: Ted Cruz, Rand Paul e Marco Rubio. Anche Scott Walker afferisce allo stesso ambito politico, pur essendosi specializzato nel suo Wisconsin nella lotta al potere dei sindacati, ma per ora aspetta alla finestra, così come il Governatore del New Jersey Chris Christie, che però è più ideologicamente affine a Bush.
Paul, per conto suo, è l’anima libertaria del partito, quella che si batte strenuamente contro i mali del big government, dalle tasse ai programmi di sorveglianza della NSA. Il primo compromesso da campagna elettorale lo ha fatto sul tema dei droni, riemerso dopo l’uccisione accidentale, al confine tra l’Afghanistan e il Pakistan, dell’americano Warren Weinstein e dell’italiano Giovanni LoPorto. Paul è da tempo un durissimo critico dell’abuso dei droni, e al Senato nel 2013 aveva fatto uno storico discorso di 13 ore ininterrotte contro l’uso di questi aerei senza pilota. Dopo la vicenda dei due ostaggi uccisi dal fuoco amico si è però limitato a dire che in questo caso il Presidente stava comunque cercando di fare la cosa giusta.
Cruz è invece un giovane senatore di origini cubane con convinzioni populiste e laurea ad Harvard; ha lanciato la candidatura dalla più grande università evangelica d’America, chiaro segno del corteggiamento in atto con la destra religiosa, al momento orfana di un candidato su cui riversarsi. Last but not least è Rubio, anche lui giovane, 42 anni, e anche lui di origini cubane, ma con un fare più accorto e prudente del collega. Nel 2010, quando è stato eletto al Senato, Rubio è stato il primo Repubblicano ad affermarsi senza il sostegno ufficiale del partito. Questo ha fatto di lui un simbolo della nuova tendenza antagonista che avanzava a destra, di pari passo all’ascesa del Tea Party nelle elezioni di medio-termine di quell’anno. L’esperienza a Capitol Hill ne ha levigato i tratti più ruvidi, e adesso si ritrova dalla parte marcatamente conservatrice per quanto riguarda i temi sociali e la politica estera, ma ha più di un nemico interno quando si parla di immigrazione e tasse. Troppo permissivo sulla tutela dei confini, dicono i critici, unendosi a quelli secondo cui i tagli fiscali che propone sono troppo pavidi e la riduzione della spesa pubblica troppo timida: non abbastanza, dunque, per fare di lui l’eroe senza macchia di cui il Partito Repubblicano ha bisogno.
Sempre che non sia vero il contrario, che la destra abbia piuttosto bisogno di ricalibrare in senso centrista il proprio messaggio per tornare ad essere competitiva con i Democratici.