I pericoli interni di un’economia cinese che rallenta

“I canoni di questo sistema politico non ci permettono di dire la verità, ma l’economia cinese è sull’orlo della bancarotta, e le nostre province hanno i conti simili a quelli della Grecia. Il debito reale della Cina si aggira intorno ai 36mila miliardi di yuan” – cioè circa 4mila miliardi di euro. A pronunciare parole di fuoco sui conti di Pechino non è un dissidente né un esponente di una “potenza straniera”, ma Larry Lang, docente di Studi finanziari presso l’Università cinese di Hong Kong e noto opinionista della televisione nazionale della Cina continentale.

Il governo cinese ha speso oltre 560 miliardi di euro per fronteggiare la crisi e aiutare le imprese statali, che nel paese sono il 70% del totale. Ma secondo Lang l’enorme sforzo non è servito: le aziende dello Stato avrebbero debiti per oltre 16mila miliardi di yuan. L’inflazione, secondo i numeri ufficiali, si attesta intorno al 6% ma per il professor Lang, la cui lezione a porte chiuse è stata registrata a inizio novembre  e poi diffusa su internet, non è inferiore al 16%. La disoccupazione colpisce il 9% della popolazione cinese e il tasso di crescita, che nell’ultimo trimestre ha toccato il 9,1% (percentuale più bassa degli ultimi due anni) sarebbe in realtà inferiore.

L’economista di Hong Kong non è certo il solo ad aver identificato problemi e trend preoccupanti. Anche l’attività manifatturiera in Cina è in calo: secondo i dati di novembre, l’indicatore Pmi, calcolato dalla banca Hsbc, ha raggiunto quota 48 in novembre, contro il 51 di ottobre. Il terziario è sceso invece a 57 punti da 61. L’indicatore prevede che quando la quota scende sotto i 50 punti, l’economia è in contrazione. Secondo l’economista Qu Hongbin «la domanda interna rallenta e la domanda esterna dovrebbe indebolirsi». Negli ultimi mesi del 2011, le esportazioni cinesi verso l’Ue sono Già scese a 28,74 miliardi di dollari contro 31,61 miliardi di settembre, mentre le esportazioni verso gli Stati Uniti sono scese a 28,6 miliardi contro i 30,11 miliardi di settembre.

Ma questi dati, non certo rosei, impallidiscono davanti al problema più grande della Cina, dal punto di vista economico: la bolla immobiliare che, anche secondo il Fondo monetario internazionale, è in procinto di scoppiare. Per non far fallire le aziende e non far perdere il lavoro a migliaia di persone, il governo,  attraverso le banche, ha prestato denaro alle aziende, che hanno costruito case e appartamenti anche in mancanza di compratori. Dati ufficiali non esistono, ma si calcola che il 50 per cento degli immobili in costruzione resti vuoto. Le città fantasma cinesi sono ormai famose ma anche alla periferia di Shanghai, Pechino o Xi’an si vedono centinaia di grattacieli in costruzione di cui, secondo la popolazione locale, nessuno ha bisogno. Dopo aver permesso che i prezzi delle case crescessero a dismisura, il governo li ha fatti crollare. Secondo i dati del settore, il valore delle nuove case  costruite a Pechino è sceso del 35 per cento solo a novembre, e i costruttori hanno ormai un invenduto per 22 mesi a Pechino e per 21 a Shanghai. Secondo un docente dell’università Tsinghua di Pechino, questi trend indicano che ormai “la più grande bolla del secolo è appena scoppiata, con serie conseguenze non solo per una delle economie più promettenti al mondo, ma anche per l’ambito internazionale».

Questi segnali di difficoltà economica, uniti a una corruzione diffusa nei quadri locali del partito, hanno fatto crescere la frequenza e l’intensità delle proteste civiche nei confronti del Partito comunista e del suo persistente controllo sulla società. La maggior parte dei cosiddetti “incidenti di massa” (circa 180mila nel 2010) avviene per problemi legati al lavoro, all’esproprio di terre, al degrado ambientale e alle restrizioni della libertà di espressione.

L’economia del Dragone si regge soprattutto sullo sfruttamento del lavoro di circa 200 milioni di migranti, che lasciano i villaggi rurali di provenienza per cercare un impiego nelle grandi città. Secondo un’indagine condotta dal China Labour Bulletin, nonostante gli incrementi del salario minimo decisi nelle varie province e nelle più importanti città cinesi (da 800 a 1.150 yuan a Pechino, da 900 a 1.300 a Shanghai, da 1.000 a 1.350 a Shenzhen), le rivolte legate al lavoro sono salite a oltre 30mila nel 2009. I casi portati davanti a un giudice sono stati, nel solo 2010, più di un milione e 264mila. Uno dei problemi maggiori per i lavoratori cinesi è la difficoltà, nonostante le paghe risibili, a farsi realmente corrispondere il salario dai datori di lavoro, non essendo tutelati in nessun modo dall’unico sindacato statale ammesso nel paese.

Un altro motivo frequente di proteste è l’espropriazione illecita di terreni, una prassi dempre più diffusa tra quei politici locali che, per mettersi in buona luce agli occhi del governo centrale, riordinano i conti del villaggio, della provincia o della regione acquistando sottocosto le terre dei cittadini (quando non vengono confiscate), per poi rivenderle a ben altri prezzi. Emblematico il caso del villaggio di Wukan, che si è concluso solo nei giorni scorsi: a settembre centinaia di abitanti hanno attaccato la sede del municipio e una stazione di polizia dopo la requisizione forzata di diversi ettari di terreno di loro proprietà. In seguito alla promessa di un’inchiesta da parte del governo centrale, le rivolte si sono calmate, ma le indagini non hanno portato a nulla e i cittadini sono scesi in strada per chiedere che i terreni confiscati fossero adeguatamente ripagati. La situazione è peggiorata con la morte – avvenuta “accidentalmente” durante un interrogatorio della polizia – di uno dei leader del villaggio. Dopo mesi di proteste e quasi due settimane di assedio da parte della polizia, che ha totalmente isolato il villaggio, il governo centrale ha dato ragione agli abitanti rimuovendo i leader del Partito e promettendo una nuova inchiesta. Una rivolta simile è scoppiata prima di Natale ad Haimen, sempre nella ricca provincia del Guandong, dove migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro l’espropriazione illecita di terreni operata dal governo per costruire una centrale energetica a carbone “eco-compatibile”.

Anche la drammatica situazione della libertà di espressione causa dissenso e continue proteste sociali. Oltre all’arresto di avvocati e attivisti per i diritti umani e la democrazia – come Liu Xiaobo, Gao Zhisheng, Chen Guangcheng – il Partito comunista cerca in tutti i modi di impedire che si diffondano notizie sulle proteste e le irregolarità dei quadri. Il governo, al grido di “Blocchiamo le informazioni dannose”, ha rilasciato a novembre un nuovo regolamento per impedire che vengano pubblicate false notizie. “Non si potranno più usare come fonti le troppo generiche voci” riporta l’agenzia statale Xinhua; “ognuno deve riuscire a trovare le notizie sul campo e non riportare informazioni di seconda mano”. Se non rispettano le nuove regole, i giornalisti rischiano di essere interdetti a vita dalla professione. In questo modo, Pechino spera di bloccare la circolazione delle informazioni su internet e i tanti “microblog” che sempre più spesso diffondono lamentele e critiche al Partito e riferiscono delle ingiustizie che avvengono nelle diverse province. Anche per questo, un’altra norma del regolamento prevede che le notizie riguardanti una provincia possano essere pubblicate solo nei giornali locali.

In sostanza, stiamo assistendo a un cambiamento profondo nel tessuto sociale della Repubblica Popolare, in gran parte stimolato proprio dai successi economici degli ultimi anni. Resta da vedere se il sistema politico e amministrativo sarà in grado di adattarsi prima che le disuguaglianze e il malcontento sociale spingano il regime di Pechino a una stretta repressiva.

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