Dagli anni della riunificazione, il turno elettorale del 22 settembre è probabilmente quello che ha destato più interesse fuori dai confini della Germania: è communis opinio che il futuro dell’Europa passi, mai come ora, da Berlino. Ma all’attenzione con la quale si guarda al voto tedesco dall’estero non corrisponde altrettanta partecipazione emotiva da parte dei cittadini della Repubblica federale. I veri protagonisti di uno dei momenti politici più significativi dell’anno sembrano vivere le elezioni come una stanca routine.
In Germania non si respira Wechselstimmung, come i tedeschi chiamano quella “aria di cambiamento” che prelude all’avvento di qualcosa di nuovo, di un ciclo politico differente. No, la sensazione diffusa è che tutto resterà come prima e che recarsi alle urne, questa volta, sia quasi inutile. Da mesi i sondaggi sono stabilmente favorevoli alla compagine governativa uscente: i democristiani della CDU e del partito-fratello bavarese CSU veleggiano intorno a un ottimo 40%, i liberali della FDP sembrano avere scongiurato il pericolo di restare sotto la soglia di sbarramento del 5%. Le condizioni affinché Angela Merkel continui a guidare un esecutivo di coalizione cristiano-liberale sembrano esserci tutte.
Eppure, le sorprese e i ribaltamenti degli equilibri sono sempre possibili in politica: in effetti, le forze che si contrappongono all’alleanza conservatrice sembrano avere acquisito, dopo il duello televisivo fra i due leader, maggiore fiducia in loro stesse. Ciò da cui deriva la scarsa tensione emotiva che si respira in questa campagna elettorale è stata finora proprio la disparità delle forze in campo: da mesi non c’è sondaggio che non attribuisca un ragguardevole vantaggio di almeno 10 punti (ma alcuni fino a 18) al partito di Merkel sulla socialdemocratica SPD, guidata in questa sfida da Peer Steinbrück.
Non è sempre stato così. La legislatura che ora volge al termine è stata tutt’altro che un pranzo di gala per la Cancelliera, nonostante fosse cominciata con il principale avversario uscito a pezzi dalle urne del settembre 2009 (la SPD raccolse solo il 23%, calando di ben 11 punti rispetto a quattro anni prima), in piena crisi di leadership e di identità. A metà mandato i rapporti si erano pressoché ribaltati: non tanto per un calo significativo della CDU, quanto per il tracollo vertiginoso degli alleati liberali, passati da uno straordinario 14,6% (miglior risultato di sempre) ad un inaudito 3%. Il tutto a fronte di una risalita della SPD, forte di una nuova guida e di una linea finalmente chiara, e di una crescita costante dei Verdi, spinti in avanti anche dal dilagante sentimento antinuclearista suscitato dalla tragedia di Fukushima.
Si trattava ovviamente di sondaggi, ma non solo. Anche le elezioni per i parlamenti dei Länder confermavano questo trend: ad inaugurare una serie quasi ininterrotta di vittorie per la coalizione SPD-Verdi era stata la più popolosa ed economicamente importante delle regioni tedesche, la Renania Settentrionale-Vestfalia, che fu riconquistata dalle sinistre dopo una parentesi di governo conservatore. Clamorosa fu poi la vittoria dei progressisti nel Baden-Württemberg, ricco ed esteso Land meridionale da sempre roccaforte democristiana: per la prima volta un dirigente dei Grünen, Winfried Kretschmann, assumeva la guida di un esecutivo regionale. Oltre ai risultati elettorali – importanti anche perché hanno determinato una maggioranza social-ecologista nel Bundesrat, la camera dei Länder – ciò che confortava la rinascente socialdemocrazia era anche il rinnovato feeling con i sindacati e la loro confederazione unitaria DGB (Deutsche Gewerkschaftsbund).
Se a pochi giorni dal 22 settembre la situazione è quella descritta sopra, allora qualcosa negli ultimi due anni deve essere andato storto per la SPD. E anche per i Verdi, benché in misura minore: nel caso degli ecologisti, infatti, era apparso da subito evidente come l’impennata di consenso fosse strettamente legata all’emozione suscitata dalla tragedia del reattore nucleare giapponese e alla conseguente richiesta di una rettifica della politica seguita sino a quel momento dal governo cristiano-liberale, intenzionato a rallentare lo spegnimento delle centrali atomiche in Germania. Merkel recepì il messaggio e, con una svolta imprevista, ma dettata dal suo proverbiale pragmatismo, decise di accelerare il piano di abbandono del nucleare deciso a suo tempo dall’esecutivo rosso-verde guidato da Gerhard Schröder e Joschka Fischer.
Proprio in questo modo di agire della Cancelliera, per descrivere il quale Ulrich Beck ha coniato l’efficace espressione merkiavellismo, si annida probabilmente uno dei motivi principali della ricaduta all’indietro della SPD. La leader democristiana, infatti, ha lentamente fatto propri quasi tutti i principali cavalli di battaglia degli avversari, dal salario minimo fino ai diritti per le coppie omosessuali: non nella stessa forma in cui sono difesi dalle sinistre (le differenze ci sono), ma in modo tale da non poter essere accusata di sostenere il contrario. Anche sul sostegno alla crescita, e non più solo all’austerità, è capitato qualcosa di analogo. Merkel, insomma, ha capito che la sua arma migliore sta nel non suscitare mobilitazione contro di sé, nel non generare una sorta di effetto-rigetto.
Oltre a ciò, il corso della gestione della crisi europea ha trasmesso a larghi settori della società tedesca la sensazione di essere in buone mani. La SPD, d’altronde, non è mai andata oltre le critiche verbali alla Cancelliera: tutte le principali votazioni al Bundestag su “pacchetti di aiuti” alla Grecia e misure di governance economica europea hanno visto i socialdemocratici, e i loro alleati Verdi, votare sempre con democristiani e liberali. Evidentemente – penseranno in molti – quello che decide Merkel non sarà poi così sbagliato, se anche i suoi avversari sono d’accordo.
Proprio quegli avversari che confidavano di avere trovato in Peer Steinbrück il candidato giusto: una valutazione che ad oggi, sondaggi alla mano, appare errata. Le gaffe di cui si è reso protagonista subito dopo la nomina a Kanzlerkandidat (ad esempio lamentarsi degli scarsi guadagni di un Cancelliere) contano senz’altro molto: la stampa ha cominciato a criticarlo, Steinbrück ha perso sicurezza in se stesso e nel partito si è addirittura cominciato a manovrare per una sua clamorosa sostituzione. Ma gli infortuni di fronte ai giornalisti non spiegano tutto: il punto cruciale è che l’esperto politico socialdemocratico è certamente un uomo competente ed è ricordato come un buon ministro delle finanze del governo di grosse Koalition (2005-2009), ma appare inadatto ad indossare un abito cucito per altre spalle.
Oltre al ruolo di capace amministratore del bilancio, in questa campagna della SPD è richiesta soprattutto l’abilità e credibilità per incarnare quello di difensore delle fasce sociali più deboli. Le persone, cioè, alle quali principalmente si rivolgono i socialdemocratici del “nuovo corso” post-Schröder, decisamente più “a sinistra” che nel recente passato: lavoratori precari, working poor, disoccupati che ricevono il sussidio Hartz IV. E Steinbrück, convinto assertore della bontà delle misure adottate da Schröder, non appare fino in fondo credibile, oggi, nel sostenere la necessità di aumentare le tasse ai più ricchi e ridurre la flessibilità nel mercato del lavoro. Come Merkel non ha mancato di far notare nel duello televisivo, lodando, in un gesto di astuto merkiavellismo, proprio l’opera del suo ex acerrimo avversario Gerhard Schröder.