La rievocazione degli avvenimenti che seguirono l’attentato di Sarajevo, nell’anno del centenario della prima guerra mondiale, suggerisce alcune riflessioni sulla crisi internazionale di questi giorni in Ucraina. Pur evitando forzature nella ricerca di parallelismi fra due situazioni evidentemente diverse, qualche lezione può essere tratta dagli errori commessi cento anni fa dalle grandi potenze europee.
Analogamente al binomio Germania/Austria-Ungheria del 1914, la Russia di Putin soffre di una sindrome di accerchiamento; è mossa dall’aspirazione di diventare (ridiventare, nel suo caso) una grande potenza, alla pari con l’unica potenza globale (la Gran Bretagna allora, gli Stati Uniti oggi); e ritiene legittimo un atteggiamento da lupo di Fedro (superior stabat lupus) verso un vicino che considera manovrato, o quanto meno incoraggiato, dai suoi antagonisti per sfidare il suo disegno geopolitico. Non possiamo nasconderci che, oggi come allora, la geopolitica è una realtà, e ciò significa che la sovranità dei piccoli paesi deve a volte fare i conti con le esigenze di sicurezza o di prestigio di un vicino molto più potente.
L’Ucraina di Yatsenjuk si trova oggi nel ruolo della Serbia di Pasic nei primi anni del Novecento. Non è accusata di aver armato la mano degli assassini di un arciduca, ma ha fatto di peggio, nell’ottica di Mosca. Ha optato per l’associazione all’Unione Europea, sabotando così (nonostante i chiari avvertimenti rivolti con successo al precedente governo, e quindi lanciando una sfida aperta al potente vicino) il progetto di Unione Euro-Asiatica: un progetto destinato nella visione di Putin a fare da pendant all’UE e a conferire alla Russia la statura di leader regionale, piuttosto che il ruolo di periferia orientale dell’Europa.
Questo atteggiamento di sfida, sempre nell’ottica di Mosca, è istigato da Bruxelles (che assume la parte di Pietroburgo nel 1914), spalleggiata da Washington (Parigi nel 1914). Inevitabilmente scatta nel Golia sfidato un riflesso di amor proprio che porta a calpestare i diritti dell’impertinente Davide e a “vedere il bluff” dei suoi protettori: nell’estate di cento anni fa l’Austria-Ungheria, che già aveva violato il diritto internazionale annettendo la Bosnia nel 1908, lanciava il suo ultimatum, volutamente lesivo della sovranità della Serbia, prevedendo che lo Zar non avrebbe attuato la minaccia di entrare in guerra e che la posizione degli Imperi Centrali ne sarebbe uscita rafforzata.
Un secolo dopo, le parti si invertono e Mosca, che già si è annessa la Crimea, tiene il vicino meridionale sotto pressione con le azioni insurrezionali nell’Est del paese e le proprie truppe a ridosso delle frontiere che dissuadono dal reprimerle energicamente. Come Vienna nel 1914, è consapevole del rischio che la riluttanza di ciascuna parte ad arretrare conduca ad una guerra (economica nel nostro caso) ma convinta che gli avversari sarebbero i primi a soffrirne e quindi non hanno interesse a scatenarla.
Come l’UE oggi è riluttante a infliggere a se stessa e alla Russia una guerra economica, la Russia zarista non voleva la guerra tout court: la mobilitazione, inizialmente solo parziale, era più un avvertimento che un preparativo; ma fece scattare la fuga in avanti tedesca in base al “piano Schlieffen”.
Anche oggi va preso sul serio il pericolo, non certo di una nuova grande guerra, ma che mosse e contromosse inneschino dinamiche non previste. Fino a pochi mesi fa il recupero della Crimea (regalata da Kruscev nel 1954) era nei desideri ma non nei piani della Russia (tanto è vero che aveva rinegoziato l’affitto della base di Sebastopol per altri 25 anni molto prima della scadenza). La rivoluzione di piazza Indipendenza a Kiev, in cui la destra nazionalista anti-russa ha avuto una parte di rilievo, ha risvegliato il separatismo della maggioranza dei crimeani, russa non solo di lingua ma di sentimenti, e regalato a Mosca il suo Anschluss su un piatto d’argento. Analogamente, l’attentato di Sarajevo aveva offerto il destro a Vienna per passare dalla repressione dell’irredentismo serbo in Bosnia-Erzegovina alla riduzione della Serbia stessa a stato vassallo.
Alla vigilia della crisi lo smembramento dell’Ucraina non era nei piani di Mosca, e probabilmente non lo è tuttora, ma il probabile rifiuto di Kiev di scendere a compromessi (sulla federalizzazione, sui rapporti con l’UE, sull’Unione Euro-Asiatica) e l’ostilità occidentale potrebbero spingere Putin a spostare in su l’obiettivo, sfruttando a fondo le circostanze favorevoli: l’insofferenza di ampi strati della popolazione russofona dell’Ucraina orientale e meridionale verso il regime imposto da “Majdan”, l’appoggio dell’opinione pubblica russa, l’impotenza occidentale ad opporre un efficace deterrente.
Come evitare questo scenario? Un negoziato su una nuova struttura federale dell’Ucraina con determinate garanzie per la minoranza russofona è una condizione minima ma forse non sufficiente. Potrebbe essere necessario un impegno a non entrare nella NATO e nell’UE. Chi denuncia simili ipotesi come appeasement a spese della sovranità dell’Ucraina non valuta appieno la gravità delle alternative. Proclamare il diritto dell’Ucraina di scegliersi le proprie alleanze economiche e militari è certo politically correct, ma non è una strategia responsabile, se comporta il rischio di una spaccatura del paese e di una nuova guerra fredda.
Mosca ha certamente gravi responsabilità in questa crisi, quanto meno per aver istigato azioni insurrezionali nell’Ucraina orientale. Nelle prossime settimane i rapporti degli osservatori internazionali (e dei servizi segreti ucraini) dovrebbero chiarire meglio in che misura agenti russi abbiano partecipato a quelle azioni, e forse scoraggiare il loro impiego in futuro. Ma in ogni caso sarebbe puerile attribuire esclusivamente ad ingerenze esterne lo stato di agitazione a Donetsk, Lugansk, Sloviansk, altre città dell’Est e ormai anche Odessa; così come lo sarebbe affermare che Majdan è stata una operazione dei servizi occidentali.
L’animosità che divide russi e ucraini nell’Est come nell’Ovest del paese viene forse sottovalutata da molti stranieri che conoscono Kiev e frequentano un élite perfettamente bilingue. Anche nella Belgrado o Sarajevo di 25 anni fa, incontrando interlocutori per lo più dall’identità “jugoslavista”, e spesso figli di coppie miste, era difficile rendersi conto del fuoco dell’odio etnico che covava sotto la cenere in vasti strati della popolazione e che, opportunamente alimentato da intellettuali e politicanti irresponsabili, avrebbe portato alla guerra civile e le pulizie etniche.
Si può discutere sugli accostamenti qui accennati fra la crisi del luglio 1914 e quella attuale. Più difficile è negare che, oggi come allora, ciascuna parte tende a cullarsi nell’illusione che un proprio atteggiamento intransigente farà desistere l’altra. E non si preoccupa di individuare la linea oltre la quale l’altra non può arretrare senza perdere la faccia.
Nel corso di quel fatidico mese di luglio di un secolo fa i protagonisti non ignoravano che la brinkmanship comportava un rischio di guerra, e perciò gli storici attribuiscono loro oggi, in varia misura, la responsabilità di aver accettato di correre quel rischio, badando solo a darne la colpa alla controparte. Anche i nostri governi e opinion-maker verranno giudicati dai futuri storici per le decisioni dettate dall’orgoglio nazionale, i rischi accettati, i calcoli sbagliati, gli incoraggiamenti incautamente dati.
Nel 2014 il rischio è quello di scivolare non verso un conflitto bellico generalizzato ma verso una guerra economica e una nuova guerra fredda, con conseguenze disastrose per le nostre economie e per la stessa Ucraina, anche qualora le venisse risparmiata una vera e propria guerra civile. Un rischio che una parte dei dirigenti politici occidentali sembrano disposti a correre, anestetizzati dalla certezza che il torto è tutto di Mosca.